la setta dei poeti estinti

#reading “Ieri” di Agota Kristof (Einaudi)

Di seguito il nostro nuovo #reading, con alcuni passi e citazioni da “Ieri” (titolo originale: Hier), romanzo di Agota Kristof, pubblicato in Italia da Einaudi.

    • Ieri soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato. Era una sorta di primavera precoce.
    • Line ti amo. Ti amo veramente, Line, ma non ho tempo per pensarci, ci sono tante cose alle quali devo pensare, per esempio a questo vento, adesso dovrei uscire e camminare nel vento. Non insieme a te, Line, non ti arrabbiare. Camminare nel vento è una cosa che non si può far altro che da soli […].
    • Se avessi veramente cercato di morire, sarei già morto. Volevo soltanto riposarmi. Non potevo più continuare la vita così, la fabbrica e tutto il resto, l’assenza di Line, l’assenza di speranza. Alzarsi alle cinque del mattino, andare, correre in strada per prendere il bus, quaranta minuti di tragitto, arrivare nel quarto villaggio, tra le mura della fabbrica. Sbrigarsi a infilare il camice grigio, timbrare in fretta davanti all’orologio, correre verso il proprio macchinario, metterlo in moto, fare il buco più rapidamente possibile, un altro buco, un altro, sempre lo stesso buco nello stesso pezzo, diecimila volte al giorno, se possibile, è da quella velocità che dipende il salario, la vita.
    • “…allora perché continua a vederla?” “Perché non ho nessun’altra. E perché non ho voglia di cambiare. Ho cambiato talmente tanto in un certo periodo che sono stanco. Comunque è sempre la stessa cosa, una Yolande vale l’altra. Vado da lei una volta a settimana. Lei cucina e io porto il vino. Non c’è amore tra noi.

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Riflessioni e immagini dal #reading su Gianni Rodari

L’errore come fonte di conoscenza e veicolo verso punti di osservazione “altri” dal reale normato e conforme alle regole; le favole come metafora di vita, veicolo di una morale leggera ma incisiva per gli adulti; i bambini come proprietari di un cantiere del linguaggio con una dignità e regole proprie. Il reading di ieri pomeriggio – nella bella cornice dei giardini di Villa Torlonia, a Roma – lo abbiamo dedicato a Gianni Rodari e a quel suo sguardo capace di ridefinire le relazioni attraverso la grammatica sincera dei più piccoli. 

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#reading “Come morti”, i #racconti di Richard Lange (Einaudi)

Di seguito il nostro nuovo #reading, con alcuni passi e citazioni da “Come morti” (titolo originale: Dead boys), valida raccolta di racconti di Richard Lange, pubblicata in Italia da Einaudi.

Tra personaggi in continua fuga, esistenze periferiche e sindromi che fanno della fragilità il proprio punto di forza, Lange racconta vicende comuni a tanti momenti della vita dei suoi lettori. Cambiano i dettagli forse, ma a un certo sottotesto non sfugge nessuno. Buona lettura!

– Il prato argenteo scintillava al chiaro di luna, come un letto di chiodi. Ci siamo seduti schiena a schiena, divisi dalla zanzariera, lei dentro, io fuori. Le ho raccontato cose che avevo sempre tenuto segrete. Per la prima volta le ho tradotte in parole. Mi ha fatto bene. Il polso ha rallentato, i pugni si sono distesi.

– Insomma, certe volte quello che chiamiamo amore è un’altra cosa, solo che al mondo esistono un sacco di bisogni che non sai come chiamare perché non ci sono le parole, e la gente, fratello…cazzo, la gente è di una pigrizia.

– Un silenzio così non capita mica tutti i giorni. Mi piacerebbe strapparne un pezzetto e conservarmelo nel portafogli.

– Mi sento come se dovessi urlare per farmi sentire, anche se è in piedi di fronte a me.

– Affondo la faccia nel cuscino mentre il mio cuore si scaraventa contro le costole per la frustrazione.

– Sulla foto che scelsi per il tiro a segno c’eravamo io e mia moglie su una spiaggia in Messico. Il nostro ultimo viaggio prima che ci bloccassero le carte di credito. A volte il ricordo di quanto eravamo felici allora mi teneva sveglio fino a notte fonda. E il suo sorriso… radioso è l’aggettivo che viene usato in questi casi. Un sorriso a cui credevi, o almeno io ci avevo creduto.

– A che ti serviva essere pazzo, se poi continuavi a vergognarti?

– Quando non siamo alle prese con un periodo di disoccupazione, noi qui attraversiamo un periodo da single, o un periodo sfortunato.

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#Reading “Mancarsi” di Diego De Silva

– Ho smesso di guardarti, ricordarti, interessarmi a come sei fatta e alle cose che mi piacevano di te, a come cammini e canticchi, a come sorridi e arricci il naso o ti volti quando ti chiamo; e tu hai smesso di essere bella quando ti sei accorta che non ti vedevo più e così non hai più fatto niente per rimanerlo, sei sfiorita per ripicca, e io con te. Voltandoci dall’altra parte abbiamo fatto in modo che questa malattia degenerativa partita da chissà quale equivoco si aggravasse e ci portasse via quello che avevamo, e tutto come se non sapessimo cosa ci stava succedendo.

Ecco perché capire come sono andate le cose non serve, e riflettere sull’accaduto per trarne un insegnamento è un esercizio adolescenziale e scolastico in cui in fondo non crediamo neanche. Siamo adulti, sbagliamo continuamente e non impariamo da nulla. La comprensione di un errore, la sua localizzazione nel tempo e perfino l’individuazione delle cause che l’hanno provocato (quando è possibile individuarle) non ci impedisce di ripeterlo e non ci fa avanzare nella vita. Non siamo buoni docenti di noi stessi e le lezioni che crediamo d’imparare sono imprecise e, in buona misura, truccate. Facciamo l’esame, ma raccomandati. Falsifichiamo i dati e anche le date, pur di assolverci almeno in parte.

– Un cliché.
Una sera tuo marito torna a casa con un collega. Ti scusi del disordine, della cena che dovrai preparare con quello che c’è in frigo.
Guardi in cagnesco tuo marito, lo sa che non sopporti queste improvvisate, che non sei abbastanza informale da accogliere un ospite senza preavviso.
“Dopo facciamo i conti”, gli dici fingendo di scherzare, mentre il suo collega ti stringe la mano guardandoti negli occhi.
Tu rimbalzi nel suo sguardo e senza accorgertene ti aggiusti i capelli con l’altra mano.
Tuo marito non si accorge di niente, preso com’è dall’opsitalità.
“Dammi”, dice al collega. Intende il cappotto, e quello nemmeno lo sente, tanto è distratto da te. Praticamente tuo marito glielo toglie di dosso senza incontrare resistenza e nemmeno partecipazione.
Ti fingi disinvolta mentre pensi che non hai un filo di trucco, che stamattina ti sei alzata con gli occhi gonfi, che hai le ciabatte ai piedi e il cardigan slabbrato di vent’anni fa. Dai subito ragione a tua madre, che ogni volta che viene a trovarti e te lo vede addosso dice: “Quand’è che lo butti quel cimelio?”, e tu rispondi: “E’ per casa, chi vuoi che mi veda?”.

– Diego De Silva, “Mancarsi”, Einaudi editore

I miei libri del 2014 – #consigliletterari

Eccoli qui, in ordine sparso, i miei libri del 2014. Quelli che ho letto dalla prima all’ultima pagina. Già perché per la maggior parte – e mi appello ai diritti del lettore di Pennac! – sono solito sfogliare, piluccare, leggere e poi abbandonare per poi riprendere la maggior parte dei libri che acquisto. Per molti è un difetto, per me è un’opportunità: so che da qualche parte c’è una storia, una raccolta di racconti che ancora mi aspetta.

In realtà probabilmente ho il terrore dell’ultima pagina, una sorta di panico da solitudine, una volta terminato il libro. Dovrei rifletterci.

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quella pagina di Sinisgalli #recensioniincorso

Una delle “Pagine milanesi” di Leonardo Sinsgalli, all’inizio dell’omonimo volume edito da Hacca, lascia senza fiato per la bellezza di una prosa fine, molto simile alla poesia. Sono parole che raccontano la città di Milano e quella bruma silenziosa e onnivora che spesso l’avvolge, che permea vite, case, paesaggi. Senza troppe introduzioni, ve la riporto di seguito.

Introduzione a Milano
(3 dicembre 1933)

Sono giunto in questa città una sera d’inverno: faticosamente il sangue ha fatto abitudine agli agguati della nebbia. Nasceva dalla terra, penetrava i muri, veniva fuori in certe ore dalle concimaie della periferia e la bocca faceva acre, le reni acide.

La finestra della mia stanza guardava una vasta parete di confine, cieca, bianca, che lungamente poi m’è rimasta nel sonno; mi dissero che nei giorni sereni avrei potuto vedere la Brianza e le Alpi. Per un’intera stagione dal cortile profondo come un pozzo e opaco, non è venuta nessuna voce: mi piaceva nel cuore della notte il rumore dell’ultimo treno che passava sul ponte della vicina stazione di Lambrate e partiva per la riviera, e prima dell’alba lo squillo, così distante, della trombetta del lattaio.

Poi ho conosciuto la pietra delle case, sensibile alle stagioni più della scorza degli alberi, una pietra vischiosa, cresciuta al buio e all’umidità. La nebbia mi si palesava meno ostile; l’alba si spegneva nella sua falsa luce con occhi d’agnella, clementi, e cieli si facevano così bassi che la zolla franta ne odorava. Una mattina l’aria mi parve più chiara e sonora intorno alle case che cominciavo a scoprire; vidi una colomba sopra il cancello di una villa in via Porpora, la testa in attesa, in amore. Quando, dopo, la colomba scomparve, non ci fu più alcun sostegno tutt’intorno e la neve cominciò a cadere.

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I reading della Setta dei Poeti Estinti

I reading dei Poeti estinti – nati dalla famosa “setta” magistralmente raccontata ne L’Attimo Fuggente – sono ormai una consuetudine. Ogni due settimane o poco più ci incontriamo, libro alla mano, e si legge e si discute di letteratura. Per scaramanzia, – nel timore che il progetto non funzionasse – fino ad ora non ne abbiamo mai scritto. Ma adesso è giunto il momento.

Il primo incontro ai primi di luglio fu a tema libero: ci siamo ritrovati grazie all’annuncio dato sui social presso il piazzale della Società geografica di Villa Celimontana a Roma, ciascuno con un libro sotto braccio. Ci siamo riconosciuti così. Splendeva un sole bellissimo e piacevole. Ci hanno fatto compagnia Gianni Rodari, Dino Buzzati, Tomasi di Lampedusa, Maxence Femine, Coleridge, e gli “epitaffi” di Spoon river.

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“Oh capitano, mio capitano!”

C’era un sapore di gioia e speranza “nonostante tutto” nei film di Robin Williams che emanava dai suoi occhi. A partire dall’Attimo Fuggente, film che ha ispirato il Gruppo dei Poeti estinti qui e altrove, pellicola che chiunque dovrebbe vedere e rivedere per cogliere il sovrasenso insito in qualsiasi incontro, intuizione, senso di vita.

E mancano parole, perifrasi o espressioni per raccontare il senso di vuoto, di mancanza e quell’atrocità della vita che avrebbe stroncato – se è vero che si è trattato di suicidio, come scrivono diversi giornali – la vita di Robin Williams. La sua risata, i suoi occhi, i suoi silenzi, ci mancheranno.

“Oh capitano, mio capitano”. Eri parte di quella Poesia.

#recensioniincorso: “La vita, non il mondo”

In questa strana estate che stenta a manifestarsi stiamo leggendo un volumetto delizioso e mai banale edito da Laterza, che vi consigliamo: “La vita, non il mondo”, di Tiziano Scarpa (premio Strega nel 2009).

Prendendo spunto da richiami e parentesi di vita vissuta, Scarpa riporta – come in un diario mentale, in brani da appena mille caratteri – pensieri e riflessioni sulla condizione di ciascuno in quanto uomo, tali da rendere evidenti segni e segnali di un soprasenso esistenziale, di una rete sottesa al reale e inanellata di rimandi solitamente ignorati o accantonati là dove possono far meno rumore.

Il tutto in un contesto che illude: la notizia per noi è solo ciò di cui si legge e si ascolta in televisione o sui giornali. Non è così. Anzi. Secondo Tiziano Scarpa bisogna essere capaci di cogliere e ascoltare i momenti, le intuizioni e le parentesi che ci riguardano da vicino ma che spesso fingiamo di ignorare. La vita intima, privata. Lo sguardo e ciò che ci obbliga ad ascoltare.

Ed è così che una visita su un promontorio cagliaritano diventa l’occasione per domandarsi e fermarsi a riflettere su quali e dove si trovino i promontori interiori, capaci di assicurare un buon punto di osservazione sulla propria vita e sulla propria dimensione umana, lontano dagli impegni e dal clamore cittadino. Ogni persona, sembra dire Scarpa, è come una città al cui interno è salutare esista un qualche promontorio, un qualche punto di osservazione dall’alto capace di dare lo sguardo d’insieme sull’esistente. “Mi domando – scrive Scarpa in uno dei suoi appunti – quale sia il mio punto interiore di osservazione onnicomprensiva, se possiedo un belvedere naturale o debbo costruirmelo”.
E ancora, rimasto sveglio in una notte insonne, così riflette: “Si rimane distesi nel buio, a occhi chiusi, vittime di se stessi, colpiti a morte da un proprio pensiero. Stanotte ho pensato che ero morto. Per la prima volta ho sperimentato come dev’essere. Ma non da fuori. Da dentro. Mi sono percepito come niente, nulla di nulla, finito, stop, chiuso. Dormire è il modo in cui il corpo immagina la propria morte. Ma restare svegli a sentirla, assurdamente vigili? Un controsenso, d’accordo; una sofisticata illusione. Eppure, non so come, sono riuscito a percepire che non mi stavo percependo, credo di aver capito che cosa mi aspetta”.

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