la setta dei poeti estinti

“Fin che ci trema il cuore”, reading dalle opere di Cesare Pavese

Non sono uomo da biografia. L’unica cosa che lascerò sono pochi libri, nei quali c’è detto tutto o quasi tutto di me. Certamente il meglio, perché io sono una vigna, ma troppo concimata. Forse è per questo che sento ogni giorno marcire in me anche le parti che ritenevo più sane. Tu, che vieni come me dalle colline, sai che il troppo letame moltiplica i vermi e distrugge il raccolto.

Queste le parole che Cesare Pavese usò in una conversazione con un amico d’infanzia, Davide Lajolo, mentre passeggiavano a Torino, in Piazza Statuto, nel 1945. Ed è proprio dagli scritti che Cesare Pavese ha lasciato che ripartiremo – il 13 ottobre prossimo, in un reading che inizierà alle 18 presso l’hub culturale “Moby Dick, a Roma (quartiere Garbatella) – per ripercorrere la vita, i pensieri e le tensioni dello scrittore delle Langhe. Dal rapporto con le donne, agli amori quasi sempre desiderati ma raramente vissuti, fino ad arrivare al suicidio – avvenuto il 27 agosto del 1950 – di cui Pavese iniziò a vagheggiare fin dagli anni del liceo. E più di una volta già ai tempi dell’università Cesare Pavese fu a un passo dall’uccidersi.

Dalle poesie alle lettere, passando per la delicatezza cesellata dei Dialoghi con Leucò, daremo quindi la parola proprio a Cesare Pavese, per far emergere quel “meglio” di cui raccontava nelle passeggiate con Lajolo, e lasciare intuire anche quel gorgo che si muoveva al di sotto della superficie e delle parole. “Io – aggiungeva Pavese a Lajolo – ho altro qui dentro. C’è in me almeno tanto egoismo quanta generosità, e c’è sempre esitazione tra fedeltà e tradimento.”

Letture di: Mara Sabia (attrice e poetessa), Emilio Fabio Torsello (giornalista).

Vi aspettiamo!

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Perché gli insetti sono tutti a dormire

Quando mi sono accorto di aver dimenticato su una sedia in libreria quel piccolo libriccino — sottolineato a matita, appuntato e con una selva di orecchiette al margine della pagina — la sensazione è stata tremenda. Già, perché i racconti di Valerio Valentini sono di quelli che quando finisci di leggerli ti mancano tremendamente.

Storie brevi, a volte brevissime, fotografie di realtà in cui ciascuno di noi può ritrovarsi ogni giorno, al prossimo passo. Storie con uno stile piano, diretto, leggero. Un misto tra la leggerezza di Calvino l’asciuttezza di Carver, con un’attenzione spasmodica ai particolari — che siano gesti o situazioni od oggetti, non importa. Qualsiasi dettaglio, nei racconti di Valerio, diventa portatore di senso, di storia, si fa simbolo e richiamo: alla vita passata, al presente con il suo carico di inquiete relazioni, a un futuro impossibile perché negato o compromesso proprio da quel preciso “scatto” fissato nel racconto.

Lo stile è chiaro, pulito, di una precisione quasi clinica che va ad asciugare quanto più possibile la scrittura per renderla immediata e diretta. E poi ci sono gli incipit:

Era uno strano comportamento, un modo di fare che non aveva mai visto in sua moglie. Non per il fatto che fossero almeno un paio di mesi che non lo aiutava a fare il nodo alla cravatta la mattina appena svegli, ma soprattutto per il modo in cui si pettinava.

Nell’incipit di “Movimenti delicati” c’è tutto: c’è il simbolo che racconta una presunta o temuta distanza — il dettaglio del “mancato” nodo alla cravatta — c’è il sospetto per un comportamento anomalo, c’è la paura di una coppia che inizia a osservarsi dall’esterno, c’è quello scientifico appuntare i dettagli sui rispettivi comportamenti che tutti quanti noi mettiamo in atto — coscientemente o meno — tutti i giorni.

Così come l’atmosfera di sospensione notturna che si respira nella pagina del racconto “Cattuboli” che — con una battuta di uno dei personaggi — dà il titolo all’intera silloge, viene comunicata da mezza frase, dove il particolare diventa una sensazione quasi tattile di silenzio, che avvolge e trascina il lettore proprio lì, a bordo piscina, nel racconto:

“E’ una serata fresca, gli insetti sono tutti a dormire”, fece la donna.

E ancora, sempre nello stesso racconto:

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#reading La femmina nuda, di Elena Stancanelli

– Vivevamo insieme da cinque anni ed eravamo entrati nella fase in cui è cruciale limitare gli scontri. Lui era aggressivo, io ero noiosa, bastava una parola, una frase e si accendeva la rissa. Avevo malumori colossali per faccende minuscole, contro i quali lui reagiva sbattendo la porta, gli sportelli, le bottiglie sul tavolo. Le telefonate facevano parte della strategia, essere gentili ma attenti, tenere d’occhio il nemico.

– L’angoscia che arrivava a montate, come il latte nel seno di una madre. Ma quello che mostravo, quello che ti dicevo, era solo una parte della verità. E per quanto grottesca non era la peggiore. Lo schifo vero, tutte le cose orribili e dementi che ho fatto, le ho tenute nascoste. Non te le raccontavo perché mi vergognavo. Speravo le intuissi, ma oggettivamente era impossibile. Non avresti mai potuto immaginare, conoscendomi.

– Sono diventata una persona danneggiata.
Quando ti succede qualcosa di brutto, un incidente, una malattia, o qualcosa di stupido ma incredibilmente doloroso come è successo a me, diventi una persona danneggiata. Per sempre. Sono come uno strumento qualsiasi che sia caduto a terra. Lo aggiusti e funziona di nuovo, ma conserva in sé il trauma di quella caduta. Non sappiamo quando, non sappiamo neanche se, ma potrebbe guastarsi di nuovo. E sarebbe ancora una conseguenza di quella vecchia caduta.

– Non me l’ha raccontato perché gli sembrasse una cosa spiritosa, ma perché aveva bisogno di nominarla. Come facciamo tutti con le persone che ci piacciono. Da quel momento ha cominciato a nominarla sempre e a sproposito. Diceva guarda, una macchina come quella di lei, o sai che l’insalata è più difficile da digerire della bistecca, me l’ha detto lei. Anche il padre di lei ha una casa a Londra, mi ha detto quando io sono andata a Londra.
“Ecco, è tipo così.”
“Cosa?”
“Cane. Il cane di lei. È tipo quello”.
Mi ha detto indicandomi un cane piccolo, un incrocio tra un Jack Russell e un barboncino.
“Bruttino”
Ho detto io. Ma Davide ha sorriso.

– Le persone cambiano, quasi sempre peggiorano. Si annoiano l’una dell’altra e sparisce l’incanto. Quando non siamo più innamorati diventiamo come giocatori che hanno finito time out, penalità, cambi. Stiamo lì, in diretta e senza angoletti nei quali nasconderci. Ci guardiamo negli occhi e proviamo disagi e un po’ di disgusto. Qualcuno ce la fa, passa oltre. Di là, dopo il disgusto, deve esserci una specie di paradiso delle coppie. Gente che se la spassa, che si dice la verità senza lasciarsi ferire, che scompare e poi torna senza dare spiegazioni.
Io e Davide non ci siamo riusciti.

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#reading “Ieri” di Agota Kristof (Einaudi)

Di seguito il nostro nuovo #reading, con alcuni passi e citazioni da “Ieri” (titolo originale: Hier), romanzo di Agota Kristof, pubblicato in Italia da Einaudi.

    • Ieri soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato. Era una sorta di primavera precoce.
    • Line ti amo. Ti amo veramente, Line, ma non ho tempo per pensarci, ci sono tante cose alle quali devo pensare, per esempio a questo vento, adesso dovrei uscire e camminare nel vento. Non insieme a te, Line, non ti arrabbiare. Camminare nel vento è una cosa che non si può far altro che da soli […].
    • Se avessi veramente cercato di morire, sarei già morto. Volevo soltanto riposarmi. Non potevo più continuare la vita così, la fabbrica e tutto il resto, l’assenza di Line, l’assenza di speranza. Alzarsi alle cinque del mattino, andare, correre in strada per prendere il bus, quaranta minuti di tragitto, arrivare nel quarto villaggio, tra le mura della fabbrica. Sbrigarsi a infilare il camice grigio, timbrare in fretta davanti all’orologio, correre verso il proprio macchinario, metterlo in moto, fare il buco più rapidamente possibile, un altro buco, un altro, sempre lo stesso buco nello stesso pezzo, diecimila volte al giorno, se possibile, è da quella velocità che dipende il salario, la vita.
    • “…allora perché continua a vederla?” “Perché non ho nessun’altra. E perché non ho voglia di cambiare. Ho cambiato talmente tanto in un certo periodo che sono stanco. Comunque è sempre la stessa cosa, una Yolande vale l’altra. Vado da lei una volta a settimana. Lei cucina e io porto il vino. Non c’è amore tra noi.

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Riflessioni e immagini dal #reading su Gianni Rodari

L’errore come fonte di conoscenza e veicolo verso punti di osservazione “altri” dal reale normato e conforme alle regole; le favole come metafora di vita, veicolo di una morale leggera ma incisiva per gli adulti; i bambini come proprietari di un cantiere del linguaggio con una dignità e regole proprie. Il reading di ieri pomeriggio – nella bella cornice dei giardini di Villa Torlonia, a Roma – lo abbiamo dedicato a Gianni Rodari e a quel suo sguardo capace di ridefinire le relazioni attraverso la grammatica sincera dei più piccoli. 

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#reading “Come morti”, i #racconti di Richard Lange (Einaudi)

Di seguito il nostro nuovo #reading, con alcuni passi e citazioni da “Come morti” (titolo originale: Dead boys), valida raccolta di racconti di Richard Lange, pubblicata in Italia da Einaudi.

Tra personaggi in continua fuga, esistenze periferiche e sindromi che fanno della fragilità il proprio punto di forza, Lange racconta vicende comuni a tanti momenti della vita dei suoi lettori. Cambiano i dettagli forse, ma a un certo sottotesto non sfugge nessuno. Buona lettura!

– Il prato argenteo scintillava al chiaro di luna, come un letto di chiodi. Ci siamo seduti schiena a schiena, divisi dalla zanzariera, lei dentro, io fuori. Le ho raccontato cose che avevo sempre tenuto segrete. Per la prima volta le ho tradotte in parole. Mi ha fatto bene. Il polso ha rallentato, i pugni si sono distesi.

– Insomma, certe volte quello che chiamiamo amore è un’altra cosa, solo che al mondo esistono un sacco di bisogni che non sai come chiamare perché non ci sono le parole, e la gente, fratello…cazzo, la gente è di una pigrizia.

– Un silenzio così non capita mica tutti i giorni. Mi piacerebbe strapparne un pezzetto e conservarmelo nel portafogli.

– Mi sento come se dovessi urlare per farmi sentire, anche se è in piedi di fronte a me.

– Affondo la faccia nel cuscino mentre il mio cuore si scaraventa contro le costole per la frustrazione.

– Sulla foto che scelsi per il tiro a segno c’eravamo io e mia moglie su una spiaggia in Messico. Il nostro ultimo viaggio prima che ci bloccassero le carte di credito. A volte il ricordo di quanto eravamo felici allora mi teneva sveglio fino a notte fonda. E il suo sorriso… radioso è l’aggettivo che viene usato in questi casi. Un sorriso a cui credevi, o almeno io ci avevo creduto.

– A che ti serviva essere pazzo, se poi continuavi a vergognarti?

– Quando non siamo alle prese con un periodo di disoccupazione, noi qui attraversiamo un periodo da single, o un periodo sfortunato.

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#Reading “Mancarsi” di Diego De Silva

– Ho smesso di guardarti, ricordarti, interessarmi a come sei fatta e alle cose che mi piacevano di te, a come cammini e canticchi, a come sorridi e arricci il naso o ti volti quando ti chiamo; e tu hai smesso di essere bella quando ti sei accorta che non ti vedevo più e così non hai più fatto niente per rimanerlo, sei sfiorita per ripicca, e io con te. Voltandoci dall’altra parte abbiamo fatto in modo che questa malattia degenerativa partita da chissà quale equivoco si aggravasse e ci portasse via quello che avevamo, e tutto come se non sapessimo cosa ci stava succedendo.

Ecco perché capire come sono andate le cose non serve, e riflettere sull’accaduto per trarne un insegnamento è un esercizio adolescenziale e scolastico in cui in fondo non crediamo neanche. Siamo adulti, sbagliamo continuamente e non impariamo da nulla. La comprensione di un errore, la sua localizzazione nel tempo e perfino l’individuazione delle cause che l’hanno provocato (quando è possibile individuarle) non ci impedisce di ripeterlo e non ci fa avanzare nella vita. Non siamo buoni docenti di noi stessi e le lezioni che crediamo d’imparare sono imprecise e, in buona misura, truccate. Facciamo l’esame, ma raccomandati. Falsifichiamo i dati e anche le date, pur di assolverci almeno in parte.

– Un cliché.
Una sera tuo marito torna a casa con un collega. Ti scusi del disordine, della cena che dovrai preparare con quello che c’è in frigo.
Guardi in cagnesco tuo marito, lo sa che non sopporti queste improvvisate, che non sei abbastanza informale da accogliere un ospite senza preavviso.
“Dopo facciamo i conti”, gli dici fingendo di scherzare, mentre il suo collega ti stringe la mano guardandoti negli occhi.
Tu rimbalzi nel suo sguardo e senza accorgertene ti aggiusti i capelli con l’altra mano.
Tuo marito non si accorge di niente, preso com’è dall’opsitalità.
“Dammi”, dice al collega. Intende il cappotto, e quello nemmeno lo sente, tanto è distratto da te. Praticamente tuo marito glielo toglie di dosso senza incontrare resistenza e nemmeno partecipazione.
Ti fingi disinvolta mentre pensi che non hai un filo di trucco, che stamattina ti sei alzata con gli occhi gonfi, che hai le ciabatte ai piedi e il cardigan slabbrato di vent’anni fa. Dai subito ragione a tua madre, che ogni volta che viene a trovarti e te lo vede addosso dice: “Quand’è che lo butti quel cimelio?”, e tu rispondi: “E’ per casa, chi vuoi che mi veda?”.

– Diego De Silva, “Mancarsi”, Einaudi editore

I miei libri del 2014 – #consigliletterari

Eccoli qui, in ordine sparso, i miei libri del 2014. Quelli che ho letto dalla prima all’ultima pagina. Già perché per la maggior parte – e mi appello ai diritti del lettore di Pennac! – sono solito sfogliare, piluccare, leggere e poi abbandonare per poi riprendere la maggior parte dei libri che acquisto. Per molti è un difetto, per me è un’opportunità: so che da qualche parte c’è una storia, una raccolta di racconti che ancora mi aspetta.

In realtà probabilmente ho il terrore dell’ultima pagina, una sorta di panico da solitudine, una volta terminato il libro. Dovrei rifletterci.

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quella pagina di Sinisgalli #recensioniincorso

Una delle “Pagine milanesi” di Leonardo Sinsgalli, all’inizio dell’omonimo volume edito da Hacca, lascia senza fiato per la bellezza di una prosa fine, molto simile alla poesia. Sono parole che raccontano la città di Milano e quella bruma silenziosa e onnivora che spesso l’avvolge, che permea vite, case, paesaggi. Senza troppe introduzioni, ve la riporto di seguito.

Introduzione a Milano
(3 dicembre 1933)

Sono giunto in questa città una sera d’inverno: faticosamente il sangue ha fatto abitudine agli agguati della nebbia. Nasceva dalla terra, penetrava i muri, veniva fuori in certe ore dalle concimaie della periferia e la bocca faceva acre, le reni acide.

La finestra della mia stanza guardava una vasta parete di confine, cieca, bianca, che lungamente poi m’è rimasta nel sonno; mi dissero che nei giorni sereni avrei potuto vedere la Brianza e le Alpi. Per un’intera stagione dal cortile profondo come un pozzo e opaco, non è venuta nessuna voce: mi piaceva nel cuore della notte il rumore dell’ultimo treno che passava sul ponte della vicina stazione di Lambrate e partiva per la riviera, e prima dell’alba lo squillo, così distante, della trombetta del lattaio.

Poi ho conosciuto la pietra delle case, sensibile alle stagioni più della scorza degli alberi, una pietra vischiosa, cresciuta al buio e all’umidità. La nebbia mi si palesava meno ostile; l’alba si spegneva nella sua falsa luce con occhi d’agnella, clementi, e cieli si facevano così bassi che la zolla franta ne odorava. Una mattina l’aria mi parve più chiara e sonora intorno alle case che cominciavo a scoprire; vidi una colomba sopra il cancello di una villa in via Porpora, la testa in attesa, in amore. Quando, dopo, la colomba scomparve, non ci fu più alcun sostegno tutt’intorno e la neve cominciò a cadere.

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