la setta dei poeti estinti

I reading della Setta dei Poeti Estinti

I reading dei Poeti estinti – nati dalla famosa “setta” magistralmente raccontata ne L’Attimo Fuggente – sono ormai una consuetudine. Ogni due settimane o poco più ci incontriamo, libro alla mano, e si legge e si discute di letteratura. Per scaramanzia, – nel timore che il progetto non funzionasse – fino ad ora non ne abbiamo mai scritto. Ma adesso è giunto il momento.

Il primo incontro ai primi di luglio fu a tema libero: ci siamo ritrovati grazie all’annuncio dato sui social presso il piazzale della Società geografica di Villa Celimontana a Roma, ciascuno con un libro sotto braccio. Ci siamo riconosciuti così. Splendeva un sole bellissimo e piacevole. Ci hanno fatto compagnia Gianni Rodari, Dino Buzzati, Tomasi di Lampedusa, Maxence Femine, Coleridge, e gli “epitaffi” di Spoon river.

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“Oh capitano, mio capitano!”

C’era un sapore di gioia e speranza “nonostante tutto” nei film di Robin Williams che emanava dai suoi occhi. A partire dall’Attimo Fuggente, film che ha ispirato il Gruppo dei Poeti estinti qui e altrove, pellicola che chiunque dovrebbe vedere e rivedere per cogliere il sovrasenso insito in qualsiasi incontro, intuizione, senso di vita.

E mancano parole, perifrasi o espressioni per raccontare il senso di vuoto, di mancanza e quell’atrocità della vita che avrebbe stroncato – se è vero che si è trattato di suicidio, come scrivono diversi giornali – la vita di Robin Williams. La sua risata, i suoi occhi, i suoi silenzi, ci mancheranno.

“Oh capitano, mio capitano”. Eri parte di quella Poesia.

#recensioniincorso: “La vita, non il mondo”

In questa strana estate che stenta a manifestarsi stiamo leggendo un volumetto delizioso e mai banale edito da Laterza, che vi consigliamo: “La vita, non il mondo”, di Tiziano Scarpa (premio Strega nel 2009).

Prendendo spunto da richiami e parentesi di vita vissuta, Scarpa riporta – come in un diario mentale, in brani da appena mille caratteri – pensieri e riflessioni sulla condizione di ciascuno in quanto uomo, tali da rendere evidenti segni e segnali di un soprasenso esistenziale, di una rete sottesa al reale e inanellata di rimandi solitamente ignorati o accantonati là dove possono far meno rumore.

Il tutto in un contesto che illude: la notizia per noi è solo ciò di cui si legge e si ascolta in televisione o sui giornali. Non è così. Anzi. Secondo Tiziano Scarpa bisogna essere capaci di cogliere e ascoltare i momenti, le intuizioni e le parentesi che ci riguardano da vicino ma che spesso fingiamo di ignorare. La vita intima, privata. Lo sguardo e ciò che ci obbliga ad ascoltare.

Ed è così che una visita su un promontorio cagliaritano diventa l’occasione per domandarsi e fermarsi a riflettere su quali e dove si trovino i promontori interiori, capaci di assicurare un buon punto di osservazione sulla propria vita e sulla propria dimensione umana, lontano dagli impegni e dal clamore cittadino. Ogni persona, sembra dire Scarpa, è come una città al cui interno è salutare esista un qualche promontorio, un qualche punto di osservazione dall’alto capace di dare lo sguardo d’insieme sull’esistente. “Mi domando – scrive Scarpa in uno dei suoi appunti – quale sia il mio punto interiore di osservazione onnicomprensiva, se possiedo un belvedere naturale o debbo costruirmelo”.
E ancora, rimasto sveglio in una notte insonne, così riflette: “Si rimane distesi nel buio, a occhi chiusi, vittime di se stessi, colpiti a morte da un proprio pensiero. Stanotte ho pensato che ero morto. Per la prima volta ho sperimentato come dev’essere. Ma non da fuori. Da dentro. Mi sono percepito come niente, nulla di nulla, finito, stop, chiuso. Dormire è il modo in cui il corpo immagina la propria morte. Ma restare svegli a sentirla, assurdamente vigili? Un controsenso, d’accordo; una sofisticata illusione. Eppure, non so come, sono riuscito a percepire che non mi stavo percependo, credo di aver capito che cosa mi aspetta”.

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Il linguaggio perduto

Quello che nella nostra letteratura ormai è andato perduto è tanta parte dell’attenzione certosina verso il linguaggio. La scelta delle parole, la finitura della sintassi, in un colpo d’occhio: la lentezza della cura. Certo, si tratta di impressioni. Nulla di verificabile né di scientificamente accertabile, ma il mondo “sociale” del web, degli hastag e – più in generale – di una produttività ossessionata dalla crisi e dalla fretta di comparire, hanno imposto una cultura della velocità quasi industriale anche nella scrittura e nella scelta dei romanzi. I libri di poco valore – vedi i romanzetti di Fabio Volo e compagnia bella – sono sempre esistiti, quindi non ci riferiamo a quelli. L’impressione però è che anche i grandi scrittori (o quantomeno quelli pubblicati dalle grandi case editrici) abbiano ormai perso la capacità, il tempo e la possibilità di cesellare il linguaggio, di intarsiare la parola, di far macerare la ricerca dell’espressione più corretta. Al punto che Manganelli, Buzzati, Ceronetti, Calamanderi, Vassalli, Pirandello (per citarne solo alcuni), sono ormai scrittori fuori moda, dimenticati anche dall’eco mediatica che – soprattutto da parte dei grandi gruppi editoriali – viene concentrata altrove: su chi vende in modo facile, gli harmony della letteratura, quelli che in altri tempi non avremmo trovato in bella vista sugli scaffali di importanti librerie.

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Questo libro non ci è piaciuto: “Nessuno è indispensabile”, di Peppe Fiore

Il titolo del romanzo Einaudi è “Nessuno è indispensabile “, di Peppe Fiore. Il proposito del libro è sicuramente edificante: trattare con ironia il mondo del lavoro. E il romanzo inizia anche bene: ficcante, tagliente, racconta senza fronzoli le bassezze private e la disperazione intima di impiegati modello in una grande società casearia che nascondono vite distrutte. Per gran parte del romanzo, a dire il vero, il lettore non stacca gli occhi dal libro. Anzi, corre a prenderlo per averne la compagnia qualsiasi cosa stia facendo. Con i drammatici suicidi, nello svolgersi della storia, che si susseguono e minano la credibilità dell’azienda.

Il problema del libro di Peppe Fiore è il finale: l’ironia e il paradosso – che fin dall’inizio segnano la scrittura di Fiore – da elemento distintivo diventano eccessivi, quasi strabordano nel cattivo gusto. A fronte di una serie lunga e drammatica di personaggi che scelgono di togliersi la vita, la vicenda finisce tra bagni nel latte, maldestre cariche della polizia e partitelle di calcio: tutto scorre e tutto viene lasciato alle spalle, i drammi risultano quasi una trovata teatrale piuttosto che tremende realtà dei giorni nostri. E l’autoreferenzialità dello scrittore che si compiace delle proprie trovate comiche è evidente tanto da risultare pesante, irreale, forzata.

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Tre recensioni “facili”, i miei primi libri del 2014

Siamo a metà del primo mese del 2014 e sono già a quota due libri e un racconto lungo. Tre opere capaci di lasciare il segno, ciascuna a modo suo.

Un bellissimo novembre, di Ercole Patti (Bompiani)

La banda Sacco, di Andrea Camilleri (Sellerio)

Ferragosto addio! di Luca Ricci (Einaudi/ebook)

La prima – Un bellissimo novembre – riporta indietro il lettore agli anni dell’adolescenza, quando ancora non si era stati inquinati dalla banalità del mondo, dall’assenza di grandi prospettive, dalla sfiducia strisciante verso il prossimo e l’amore era una scoperta agrodolce. Il tutto nella cornice di Catania, descritta da Patti nei minimi particolari, tanto da avere l’impressione di aggirarsi lungo via Etnea o più giù, verso la Marina.

Il secondo libro è una delle migliori opere lette negli ultimi anni. Confesso anche che è stata la prima di Camilleri cui mi sia avvicinato (in genere fuggo gli scrittori “commerciali”). L’opera racconta la vicenda realmente accaduta della famiglia Sacco – tutti contadini – che per prima, nel 1920, in Sicilia si ribellò alla mafia. In un’epoca in cui le forze dell’ordine e le istituzioni erano “maffiose” per semplice impotenza e mancanza di mezzi – meglio piegarsi che soccombere – e dove i giudici aggiustavano sentenze e ossequiavano i disonesti, credere nella giustizia era più una scommessa che una certezza. Tant’è che da onesta famiglia di contadini quali erano, la famiglia Sacco si ritrovò ad essere additata come “la banda Sacco”. Il tutto raccontato dalla penna di Camilleri che trasmette quel sapore di dialetto.

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