Il titolo del romanzo Einaudi è “Nessuno è indispensabile “, di Peppe Fiore. Il proposito del libro è sicuramente edificante: trattare con ironia il mondo del lavoro. E il romanzo inizia anche bene: ficcante, tagliente, racconta senza fronzoli le bassezze private e la disperazione intima di impiegati modello in una grande società casearia che nascondono vite distrutte. Per gran parte del romanzo, a dire il vero, il lettore non stacca gli occhi dal libro. Anzi, corre a prenderlo per averne la compagnia qualsiasi cosa stia facendo. Con i drammatici suicidi, nello svolgersi della storia, che si susseguono e minano la credibilità dell’azienda.
Il problema del libro di Peppe Fiore è il finale: l’ironia e il paradosso – che fin dall’inizio segnano la scrittura di Fiore – da elemento distintivo diventano eccessivi, quasi strabordano nel cattivo gusto. A fronte di una serie lunga e drammatica di personaggi che scelgono di togliersi la vita, la vicenda finisce tra bagni nel latte, maldestre cariche della polizia e partitelle di calcio: tutto scorre e tutto viene lasciato alle spalle, i drammi risultano quasi una trovata teatrale piuttosto che tremende realtà dei giorni nostri. E l’autoreferenzialità dello scrittore che si compiace delle proprie trovate comiche è evidente tanto da risultare pesante, irreale, forzata.
Il libro, dunque, è interessante fino a poco prima del finale, quando ci si chiede il perché di quella conclusione esagerata, quasi noncurante dei drammi narrati in precedenza: vite distrutte che si trascinano dietro la scorza “corporate” della presentabilità aziendale, impiegati che si riducono a masturbarsi davanti a un computer nell’illusione di un minimo di felicità, la bieca normalità di chi fa i conti con tutto ciò che manca. Non vogliamo credere che davvero i personaggi proseguiranno la loro vita oltre l’ultima pagina indifferenti e raggomitolati su se stessi rispetto a un passato liquidato con una scrollata di spalle. O con un bagno in una vasca di latte.