la setta dei poeti estinti

Invito alle odorose vie del cuore di Rocco Scotellaro

In occasione della serata di letture dedicata a Rocco Scotellaro, pubblichiamo un saggio scritto da Mara Sabia sul poeta di Tricarico.

Rocco Scotellaro. Uno dei miei poeti maestri. Riconosco nella sua una delle maggiori voci poetiche del Novecento italiano: una voce forte, ruvida e gentile che molto mi ha insegnato. Della poesia e della vita.
Conobbi la poesia scotellariana più o meno all’età in cui egli scrisse Uno si distrae al bivio. Non che prima non lo avessi letto, ma lo sentii davvero come si sente un poeta solo a quella età. E notai che quanto abitualmente si tende a far emergere dalla sua produzione letteraria, oltre che dalla sua breve vita, sono i temi quali l’impegno politico, “i contadini del Sud”, la ricerca del rimedio alla fame per la sua terra orfana di Cristo, come nella definizione dell’amico Levi. Eppure, a ben guardare tra i versi scotellariani, si scorgono motivi apparentemente lontani dai citati e, forse, meno noti. Fu così che io scoprii un poeta altro; un altro Rocco Scotellaro, che poco aveva a che fare con la Questione Meridionale, la politica, il martirio del carcere, la perduta schiavitù-libertà contadina, con Levi – e il levismo – che tanto diede, e tanto tolse, a Scotellaro e alla sua fama, così come alla Lucania stessa. Scoprii lo Scotellaro altro e lo studiai. Scoprii e studiai l’uomo, umano troppo umano, spesso impulsivo, giocoso; scoprii l’uomo che amava le donne, ma anche i Classici e i Romantici. Altro che schiavitù contadina. Facile salì, allora, alla mente il confronto tra Rocco Scotellaro e Pablo Neruda: lo stesso intenso fervore impegnato aleggia nei versi di entrambi, le stesse accese note di passione, ma anche lo stesso adorante ritorno alla bellezza, allo sconfinato mistero dell’universo femminile, simbolo del quale diventa il volto bianco di città di una straniera o quello delle donne lucane che “portano la toppa dei capelli neri sulla nuca” . Di Neruda, Giuseppe Bellini ha scritto:

Ha rivendicato le vie del cuore, senza ripudiare la sua funzione di poeta civile, soprattutto in qualità di uomo impegnato col proprio tempo, sinceramente solidale con il prossimo, coinvolto fino alle radici nella sua situazione drammatica .

Sottoscriverei lo stesso pensiero anche a proposito del poeta di Tricarico, benché diverse le origini e le situazioni. Ed è, dunque, brevemente, che per le scotellariane vie del cuore vorrei invitarvi. In una lettura evocativa, scevra da alcuna annotazione critica, tra i ritratti di quelle donne paesane, figlie della miseria nera, fanciulle “dai seni sterpigni” o figlie “della quercia e della macchia” o, ancora, delle signorine di città. Tutte, tutte con la parola di Rocco Scotellaro, diventano creature dagli “odori di tutti i giardini” . Nei giardini germogliano fiori odorosi e le donne vi dimorano come querce possenti ed evocano i profumi selvaggi del bosco, e segreti aromi campestri. Nella splendida poesia Reseda, odore perso e ritrovato Scotellaro scrive:

Avevi tutti gli odori dei giardini
seppelliti nei fossi attorno le case;
tu sei, réseda selvaggia, che mi nutri
l’amore che cerco, che mi fai sperare.

Poi aggiunge:

(…)
io ti guardo e mi bevo il tuo sorriso,
amica del caso, scoperta del cuore
che deve colmare la sua sera.

La donna-reseda è scoperta che colma la sera del cuore del poeta, lo solleva dalle angosce. Pianta profumatissima, la reseda ha proprietà lenitive, insite già nel nome: reseda viene infatti dal verbo latino rĕsēdo,che si traduce con calmare, guarire, alleviare. Non è raro, dunque, come si può dedurre celermente dai versi appena citati, che le donne cantate da Scotellaro siano soventemente assimilate a piante, fiori, vegetali. E non è raro che le donne scotellariane siano figure salvifiche, guaritrici. Esiste in merito una poesia emblematica. E non a caso è il componimento che dà il titolo a tutta una sezione della silloge È fatto giorno:

È rimasto l’odore
della tua carne nel mio letto.
È calda così la malva
Che ci teniamo ad essiccare
Per i dolori dell’inverno.

Il titolo è preso dal terzo verso: È calda così la mal-va. È qui, tutto qui il senso della donna in Scotellaro. L’incipit è volto alla persistenza dell’odore, parola magica che ricorre anche in molte poesie scotellariane. Parola evocatrice che dà senso ad un “senso”. Chi percepisce un odore viene automaticamente catapultato nella situazione e nel tempo in cui l’ha avvertito; l’odorato è l’unico senso capace di una associazione immediata tra sensazione e situazione. Senza filtri. Un odore è molto più di una sensazione temporanea, è qualcosa che poi ti porti dietro, attaccato a qualche angolo di anima. In questo caso l’autore parla chiaramente dell’odore della tua “carne” nel mio letto. Potrebbe sembrare una frase indelicata. Invece no. Appena un verso più avanti e la marcata sensualità si smorza nel caldo della malva.
Perché poi la malva?
Mia nonna, contadina vera, di quelle con ancora “la toppa dei capelli” – non più neri – “dietro la nuca”, con la malva cura tutto. Ancora oggi.
La malva nella tradizione villica lucana è un tocca-sana generale: si cura con l’infuso di malva il mal di denti, il mal di pancia, il raffreddore; è un tonificante per l’utero delle partorienti e, misto alla camomilla, è un antidoto contro l’insonnia. Si dice “la malva da ogni male salva”. L’odore, che emanano quei fiori messi ad essiccare nelle soffitte buie, è caldo, caldo davvero come potrebbe essere quello di una bella donna, appena levata dal letto. La donna paragonata alla malva diventa, di conseguenza, una riparatrice universale. È un unguento, una medicina, una pozione. La donna, nei versi scotellariani, è un toccasana generale.
La donna in Scotellaro salva. Come la malva.
Non è un caso, allora, che proprio ad una donna il poeta si rivolga, si confidi e si congedi in Saluto, componimento del 1948 escluso da Carlo Levi dal corpo della silloge È fatto giorno. È questa una fan-ciulla vestita di ginestre, un fiore selvatico, timida e chiusa come un acerbo fiorone, figlia della quercia e della macchia, vegetale tra i vegetali. E non è un caso neanche che sia paragonata a una Madonna molto venerata in Lucania, Santa Maria di Fonti. A questa figura femminile che, come la donna di È calda così la malva, ha in sé caratteristiche erboree e salvifiche, il poeta dice: “Io non ti voglio dire quante strade odorose ho da rifuggire” .

Non sentirai mai più la maggiolata,
la figlia della quercia e della macchia.
Vestivi dei fiori delle ginestre
Ridonate all’incolto pendìo.
Inviolata eri e chiusa
Come acerbo fiorone.
Avevi l’occhio bianco dei faveti
Spaurito, simile alle lepri
Prese nel laccio delle mute.
Io quando t’assalii
Sentii il tuo ventre ridere.
E le tue guance arrossate
Erano un altro selvatico fiore
Lasciato al pascolo.

Io non ti rivedrò mai più
La figlia della quercia e della macchia.
Né ora che ricorre la tua festa,
la festa dei ceri e le contorte nicchie
e dentro il viso nero di Maria di Fonti
che pare tua madre giovane.
Sei la prima voce,
sei alla testa del corteo
delle vergini in veli,
e vai spargendo dai cesti
vessilli di ginestra e madreselva
profumata d’incenso.
Io non ti voglio dire
Quante strade odorose ho da rifuggire.

Le strade odorose sono quelle della sua terra -lastricate, durante le processioni, di petali e incenso – sappiamo morirà a Portici, quasi un esiliato.
Scotellaro è un viandante nostalgico in questi versi, un viandante che non mette radici, a differenza delle sue donne fiorite sui pendii selvaggi come piante forti. Esiste, dunque, tutta una strana alchimia, nell’opera poetica di Scotellaro, in parte accessibile solo da chi conosce la cultura contadina, da chi sa, appunto, le proprietà della reseda e della malva.
Scotellaro è stato un grande conoscitore del suo Sud ed interprete perfetto delle sue criticità come delle sue grazie e, insieme, un poeta passionale, lieve, descrittivo, capace di cantare come pochi le proprie odorose vie del cuore. La poesia scotellariana, così imperniata da immagini campestri anche quando e-rotica, non si configura quale attività secondaria o parallela all’impegno politico del poeta, portata a-vanti in momenti di otium, ma è arma stessa della sua denuncia. Fluisce nel suo stesso programma. Rocco Scotellaro è soprattutto uomo e poeta che mette a nudo le sue passioni con lo stesso eccezionale fuoco che lo ha contraddistinto in ogni fase della sua vita. Le sue donne arboree sono esse stesse generate e cantate dall’essenza della terra lucana e dalle sue profonde contraddizioni. Ad altre righe, forse, andrà affidato il ritratto più dettagliato delle donne scotellariane, che ancora hanno molto da svelare; nel frattempo porgo questo invito, che è un ben piccolo tributo di lettrice appassionata e riconoscente, all’uomo completo Scotellaro e soprattutto alla sua “poesia dei sensi”.

Mara Sabia

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