la setta dei poeti estinti

La bella estate. O l’ultimo bagliore della giovinezza

Un romanzo che dovrebbe partire dalla conclusione, che per l’appunto sembra suggerire un nuovo inizio. La bella estate è uno di quei libri che spingono il lettore ad andare oltre il punto, a non rassegnarsi alla fine della storia e proprio per questa ragione si imprimono nella memoria indelebili insieme al carico di domande, dubbi, interrogativi che hanno suscitato durante la lettura.

Forse è questo il lascito più grande della letteratura: la possibilità dei libri si ispirare riflessioni profonde, in grado di connettere intimamente la vita alle pagine scritte. In fondo è la ragione per cui si legge, nella speranza che un libro continui a parlarci anche una volta dopo averlo terminato.

Con La bella estate non può accadere che questo, persino nel suo romanzo ingiustamente meno celebre Pavese rivela le sue doti indiscutibili di grande narratore creando personaggi vivi, contraddittori e dolorosamente veri.

Con questo libro Pavese si aggiudicò il premio Strega nel 1950, tuttavia l’opera fu a lungo svalutata dalla critica e ancora non è ritenuta un vero e proprio classico.

Scritto nel 1940, il testo integrale comparve solo nove anni dopo nel trittico omonimo composto inoltre da Il diavolo sulle colline e Tra donne sole.

Il racconto che dà il titolo alla silloge, La bella estate, ora pubblicato da Einaudi in edizione singola, è di certo il più significativo. Associato al periodo naturalista dell’autore, La bella estate è la storia di Ginia e del suo ingresso nell’età adulta. L’inizio della sua maturazione come donna. Attraverso una vicenda apparentemente semplice e lineare l’autore tratteggia una riflessione profonda sulla vita e la giovinezza che si apre a diverse interpretazioni. Letto ai giorni nostri questo libro appare estremamente moderno per la storia e le tematiche affrontate. È sorprendente scoprire come Pavese riesca a parlare di una donna malata di sifilide nei reticenti Anni Quaranta. In queste pagine, soprattutto, si può leggere in filigrana un elogio alla libertà, al suo potere travolgente e talvolta spaventoso.

L’incipit non lascia affatto indifferenti, in poche righe Pavese riesce a tratteggiare non solo una stagione, ma l’incredibile senso di euforia e di attesa che accompagna certi istanti dell’esistenza. L’estate irripetibile della giovinezza viene associata a una festa, a una frenesia irrefrenabile, a un’avidità di vita:

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada per diventare come matte, e tutto era così bello specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano che ancora qualcosa succedesse.

Inutile dire che l’estate di Pavese è tutt’altro che bella, sull’intera narrazione aleggia un’atmosfera malinconica che nel finale prenderà il sopravvento. La “bella estate” del titolo infatti non rappresenta solamente una stagione, ma uno stato d’animo: l’estate è nel cuore di Ginia, ma sarà presto destinata a spegnersi come un fuoco fatuo, a trascorrere come ogni stagione della vita. Dell’entusiasmo e della curiosità della protagonista rimarrà alla fine un senso di disperata solitudine.

L’autore ha descritto questo libro con una frase incisiva: «La storia di una verginità che si difende». La bella estate è l’espressione più pura della giovinezza, colta nel suo momento di massimo splendore.

Nella nuova veste grafica di Einaudi in copertina sono ritratte due donne, il particolare è tratto dal quadro di Gerda Roosval- Kallstenius Evening Sun and Sun Reflections. Sono una signorina borghese e una cameriera, si trovano in un interno, dove una è in atto di vestire l’altra. Proprio attorno a due donne ruota il perno centrale della narrazione: Gina e Amelia così sono diverse e tuttavia complementari. L’una giovane e inesperta, l’altra smaliziata e sensuale: dotate entrambe di personalità molto forti pur nelle loro differenze.

Il romanzo stesso potrebbe essere visto come un “processo di vestizione”, non è certamente un caso che Ginia alla fine della storia si scopra nuda e cerchi di coprirsi. Sarà proprio l’incontro tra l’ingenua Ginia e l’enigmatica Amelia, che posa come modista per i pittori, a dare avvio alla storia. Questa donna ambigua e misteriosa, un personaggio carismatico e perfettamente costruito, scandirà il ritmo della narrazione con le sue assenze e gli altrettanto improvvisi ritorni.

Attraverso Amelia, Ginia scopre un modo sconosciuto, la Torino bohémienne e tumultuosa dei caffè e degli artisti. Al di là dei confini limitati dell’universo operaio, dedito a un lavoro alienante, la protagonista viene a contatto con l’esistenza vivace e frizzante di Guido, pittore e soldato, e  del suo compagno di avventure Rodrigues. Affascinata dalle doti artistiche e dai capelli biondi di Guido, Ginia se ne innamora e dopo molte reticenze finirà per concedersi totalmente a lui. Il sentimento di Ginia è tenero e delicato e viene descritto da Pavese con un’intensità unica; è davvero impressionante la capacità dell’autore di calarsi nei panni e nelle sensazioni di una ragazza.  

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“Fin che ci trema il cuore”, reading dalle opere di Cesare Pavese

Non sono uomo da biografia. L’unica cosa che lascerò sono pochi libri, nei quali c’è detto tutto o quasi tutto di me. Certamente il meglio, perché io sono una vigna, ma troppo concimata. Forse è per questo che sento ogni giorno marcire in me anche le parti che ritenevo più sane. Tu, che vieni come me dalle colline, sai che il troppo letame moltiplica i vermi e distrugge il raccolto.

Queste le parole che Cesare Pavese usò in una conversazione con un amico d’infanzia, Davide Lajolo, mentre passeggiavano a Torino, in Piazza Statuto, nel 1945. Ed è proprio dagli scritti che Cesare Pavese ha lasciato che ripartiremo – il 13 ottobre prossimo, in un reading che inizierà alle 18 presso l’hub culturale “Moby Dick, a Roma (quartiere Garbatella) – per ripercorrere la vita, i pensieri e le tensioni dello scrittore delle Langhe. Dal rapporto con le donne, agli amori quasi sempre desiderati ma raramente vissuti, fino ad arrivare al suicidio – avvenuto il 27 agosto del 1950 – di cui Pavese iniziò a vagheggiare fin dagli anni del liceo. E più di una volta già ai tempi dell’università Cesare Pavese fu a un passo dall’uccidersi.

Dalle poesie alle lettere, passando per la delicatezza cesellata dei Dialoghi con Leucò, daremo quindi la parola proprio a Cesare Pavese, per far emergere quel “meglio” di cui raccontava nelle passeggiate con Lajolo, e lasciare intuire anche quel gorgo che si muoveva al di sotto della superficie e delle parole. “Io – aggiungeva Pavese a Lajolo – ho altro qui dentro. C’è in me almeno tanto egoismo quanta generosità, e c’è sempre esitazione tra fedeltà e tradimento.”

Letture di: Mara Sabia (attrice e poetessa), Emilio Fabio Torsello (giornalista).

Vi aspettiamo!

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