la setta dei poeti estinti

#Reading “Mancarsi” di Diego De Silva

– Ho smesso di guardarti, ricordarti, interessarmi a come sei fatta e alle cose che mi piacevano di te, a come cammini e canticchi, a come sorridi e arricci il naso o ti volti quando ti chiamo; e tu hai smesso di essere bella quando ti sei accorta che non ti vedevo più e così non hai più fatto niente per rimanerlo, sei sfiorita per ripicca, e io con te. Voltandoci dall’altra parte abbiamo fatto in modo che questa malattia degenerativa partita da chissà quale equivoco si aggravasse e ci portasse via quello che avevamo, e tutto come se non sapessimo cosa ci stava succedendo.

Ecco perché capire come sono andate le cose non serve, e riflettere sull’accaduto per trarne un insegnamento è un esercizio adolescenziale e scolastico in cui in fondo non crediamo neanche. Siamo adulti, sbagliamo continuamente e non impariamo da nulla. La comprensione di un errore, la sua localizzazione nel tempo e perfino l’individuazione delle cause che l’hanno provocato (quando è possibile individuarle) non ci impedisce di ripeterlo e non ci fa avanzare nella vita. Non siamo buoni docenti di noi stessi e le lezioni che crediamo d’imparare sono imprecise e, in buona misura, truccate. Facciamo l’esame, ma raccomandati. Falsifichiamo i dati e anche le date, pur di assolverci almeno in parte.

– Un cliché.
Una sera tuo marito torna a casa con un collega. Ti scusi del disordine, della cena che dovrai preparare con quello che c’è in frigo.
Guardi in cagnesco tuo marito, lo sa che non sopporti queste improvvisate, che non sei abbastanza informale da accogliere un ospite senza preavviso.
“Dopo facciamo i conti”, gli dici fingendo di scherzare, mentre il suo collega ti stringe la mano guardandoti negli occhi.
Tu rimbalzi nel suo sguardo e senza accorgertene ti aggiusti i capelli con l’altra mano.
Tuo marito non si accorge di niente, preso com’è dall’opsitalità.
“Dammi”, dice al collega. Intende il cappotto, e quello nemmeno lo sente, tanto è distratto da te. Praticamente tuo marito glielo toglie di dosso senza incontrare resistenza e nemmeno partecipazione.
Ti fingi disinvolta mentre pensi che non hai un filo di trucco, che stamattina ti sei alzata con gli occhi gonfi, che hai le ciabatte ai piedi e il cardigan slabbrato di vent’anni fa. Dai subito ragione a tua madre, che ogni volta che viene a trovarti e te lo vede addosso dice: “Quand’è che lo butti quel cimelio?”, e tu rispondi: “E’ per casa, chi vuoi che mi veda?”.

– Diego De Silva, “Mancarsi”, Einaudi editore

Questo libro non ci è piaciuto: “Nessuno è indispensabile”, di Peppe Fiore

Il titolo del romanzo Einaudi è “Nessuno è indispensabile “, di Peppe Fiore. Il proposito del libro è sicuramente edificante: trattare con ironia il mondo del lavoro. E il romanzo inizia anche bene: ficcante, tagliente, racconta senza fronzoli le bassezze private e la disperazione intima di impiegati modello in una grande società casearia che nascondono vite distrutte. Per gran parte del romanzo, a dire il vero, il lettore non stacca gli occhi dal libro. Anzi, corre a prenderlo per averne la compagnia qualsiasi cosa stia facendo. Con i drammatici suicidi, nello svolgersi della storia, che si susseguono e minano la credibilità dell’azienda.

Il problema del libro di Peppe Fiore è il finale: l’ironia e il paradosso – che fin dall’inizio segnano la scrittura di Fiore – da elemento distintivo diventano eccessivi, quasi strabordano nel cattivo gusto. A fronte di una serie lunga e drammatica di personaggi che scelgono di togliersi la vita, la vicenda finisce tra bagni nel latte, maldestre cariche della polizia e partitelle di calcio: tutto scorre e tutto viene lasciato alle spalle, i drammi risultano quasi una trovata teatrale piuttosto che tremende realtà dei giorni nostri. E l’autoreferenzialità dello scrittore che si compiace delle proprie trovate comiche è evidente tanto da risultare pesante, irreale, forzata.

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