la setta dei poeti estinti

Scrivo di mia madre per metterla al mondo – “Una donna” di Annie Ernaux

«Io credo che, in qualche modo, il mio desiderio di scrivere derivi dal desiderio di mia madre. Mia madre aveva una grande ammirazione per i libri, per gli scrittori. Lei ha avuto un’influenza straordinaria su di me». Con questo delicato e toccante ricordo, Annie Ernaux  risponde a una delle domande di Claire-Lise Tondeur sulle cause che l’hanno spinta alla scrittura, in un’intervista del luglio 1993.

Al di là del talento individuale, tutto viene dunque ricondotto all’immagine di quella donna poco istruita, lavoratrice instancabile che, di tanto in tanto, vedendo la figlia leggere, sospirava: «Ah, se fossi stata capace di farlo mi sarebbe piaciuto scrivere un romanzo».

Un romanzo quella donna non l’ha scritto, ma qualcun altro l’ha fatto per lei: raccontando, con minuzia di particolari, la sua esistenza quasi allo scopo di consegnarle nuovamente la vita. All’origine di questo libro si trova un significato quasi religioso; si potrebbe definire un tentativo di resurrezione.

A questo proposito è di forte impatto emotivo il passaggio di testimone da madre a figlia, quando l’autrice annuncia la sua nascita al futuro e, subito dopo, in un geniale salto temporale recupera le fila della narrazione al presente: «All’inizio del 1940 aspetta un altro figlio. Nascerò in settembre. Ora mi sembra di scrivere su mia madre per, a mia volta, metterla al mondo». ( p.40) Non si tratta di un ritratto angelico, al contrario, tanto umano da risultare quasi diabolico, lo rivelano le prime frasi: «Era violenta»  e ancora «Era una donna che bruciava tutto».

Sempre nell’intervista del 1993, Ernaux afferma: «Un progetto materno terribile ha pesato su di me». L’aspetto “terribile” consiste nella volontà materna di consentire alla figlia di compiere il cosiddetto “balzo sociale” permettendole così di liberarsi da una condizione subalterna attraverso l’istruzione: «elevarsi per lei significava soprattutto imparare.» La vicinanza tra i due mondi, rurale-operaio e borghese, posti spesso in opposizione, sarà uno dei temi più ricorrenti nella scrittura della Ernaux, e in particolare all’origine di quel particolare sentimento di “vergogna sociale” che l’ha perseguitata per tutta la vita: la vergogna per le proprie origini e, allo stesso tempo, l’inestinguibile senso di colpa dettato da questa vergogna. Una frase, soprattutto, esemplifica l’ambiguità di questo conflitto: In certi momenti aveva in sua figlia, di fronte a lei, un nemico di classe.     

Ѐ quasi commuovente il valore incommensurabile attribuito alla cultura da parte di una donna che gestiva un bar-drogheria in un piccolo paesino della Senna Marittima; una commerciante che nella vita di tutti i giorni doveva preoccuparsi di faccende ben più materiali e urgenti, come far tornare i conti, gestire i clienti, tirare avanti l’attività per sfamare la famiglia.  «I libri erano gli unici oggetti che lei maneggiava con attenzione e precauzione. Si puliva sempre le mani, prima di toccarli».

Annie Ernaux, quattro anni dopo Il Posto  (l’opera sulla vita del padre che l’ha consacrata al giudizio della critica) nel 1987, a seguito della morte della madre, scrisse questo libro, avvalendosi ancora una volta di uno stile affilato, scarno, che procede per paragrafi brevi, elenchi, ripetizioni. Une femme, per l’appunto. Il romanzo fu pubblicato dall’editore Gallimard nel 1988, apparve per la prima volta in Italia presso Guanda nello stesso anno con il titolo “Una vita di donna”. A quasi trent’anni di distanza, L’Orma editore ce ne riconsegna l’edizione italiana con una traduzione di Lorenzo Flabbi, vincitore del Premio Stendhal per Memoria di ragazza, precedente libro della Ernaux pubblicato nell’aprile 2017.

Una donna. Ѐ bene sottolineare la rilevanza dell’articolo indeterminativo nel titolo, rivela l’intenzione di voler racchiudere in sé un’esperienza universale che trascende il significato della vita individuale. All’intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia, secondo la volontà dell’autrice che ha coniato questo nuovo genere letterario definibile come “Autobiografia impersonale”, in cui il punto di vista mantiene sempre una certa distanza oggettivante dai fatti narrati, senza indugiare nel lirismo né nell’introspezione. Una ricostruzione accurata che non si adagia nel patetismo del ricordo o delle descrizioni minuziose.

Più che una narratrice, un’archivista, come lei stessa si definisce: «Questo sapere trasmesso per secoli da madre in figlia si ferma a me, che ormai ne sono soltanto l’archivista».

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Revolutionary Road, il dramma moderno di un amore perfetto

«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». L’incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj sembra sintetizzare alla perfezione la trama del romanzo di Richard Yates, Revolutionary Road.

Definito dalla critica “una tragedia contemporanea”, il libro di Yates ritrae un matrimonio sull’orlo dell’abisso: attraverso il lento declino di una coppia della middle-class americana degli anni ’50 viene messa in luce, innanzitutto, la crisi dell’individuo che ha perduto i propri punti di riferimento. Frank e April Wheeler possiedono, in apparenza, tutto quanto potrebbero desiderare: sono una coppia giovane e di bell’aspetto, con due bambini biondi e vivaci, vivono in una bella casa dotata di ogni comfort nel quartiere residenziale di Revolutionary Hill, nei sobborghi di New York.

Il circondario di Revolutionary Road, scrive Yates, non è stato progettato in funzione di una tragedia: le staccionate sono accuratamente dipinte di bianco, i prati puliti e tagliati di fresco. La sera le luci si accendono all’interno di tutte le case lasciando fuori l’oscurità e ogni incertezza. Nelle pagine finali della storia, Yates dirà: «Un uomo intento a percorrere di corsa queste strade, oppresso da un disperato dolore, era fuori posto in modo addirittura indecente». Ma il presagio della fine è avvertibile fin dal principio: l’ambientazione da fiaba, dalle tinte color pastello, che fa da sfondo alle vite dei due protagonisti talvolta appare come un gigantesco castello di carte destinato a ripiegarsi su se stesso; quella stessa casa sulla collina che dovrebbe costituire il rifugio da tutti i mali è in realtà una trappola, un inferno privato creato dalle stesse persone che lo abitano. Ben presto il lettore viene invitato a vedere oltre la superficie, scoprendo così quali drammi personali agitano gli abitanti di Revolutionary Road. La vita dei Wheeler non è affatto come sembra: non sono una famiglia felice, ma una coppia in perenne stato di tensione, insoddisfatta, che riesce solo a rinfacciarsi ambizioni frustrate, nella nostalgica commemorazione di una giovinezza dove tutto era ancora possibile. Delusi dalla loro esistenza, ma ancor più da loro stessi, marito e moglie vivono la loro realtà, la vita familiare, quasi si trattasse di una trappola e sognano di evadere progettando un viaggio-fuga a Parigi, per sfuggire alla quotidianità soffocante, alle ipocrisie, all’educato gioco di finzioni che li circonda. In entrambi i protagonisti si avverte il desiderio di fuggire da una vita che non hanno scelto, e in cui si sentono intrappolati senza scampo. Le pagine del romanzo ci rivelano, con un sapiente uso dei flashback, l’amara verità di una famiglia nata quasi per necessità, in seguito alla notizia inaspettata dell’arrivo del primo figlio. Dopo sette anni, il matrimonio sembra essere giunto al capolinea e il libro si apre in medias res mostrandoci due persone incapaci di capirsi e di comunicare, se non tramite litigi furibondi.

Il viaggio alla volta di Parigi, fantasticato da April, è la metafora del desiderio, di una felicità ancora possibile. Visti da vicino, i personaggi di Yates sono “squallidi”, infelici, raramente possiedono delle caratteristiche positive. E, soprattutto, vivono in una condizione di solitudine senza scampo; quel nuovo genere di solitudine tipica del XX secolo, a cui solo un narratore come Yates può dare voce,  la si potrebbe definire “solitudine dell’incomunicabilità”.

Frank Wheeler trascorre le sue giornate al quindicesimo piano del Knox Building Center, facendo quello che lui stesso definisce “il lavoro più cretino del mondo,” nel mentre intrattiene una relazione clandestina con una collega dell’ufficio per non lasciarsi annientare dalla noia. Tutte le persone che circondano Frank e April sono insoddisfatte per qualche ragione, oppure nascondono un’infelicità segreta: lo sono i loro amici più intimi, i Cambpell, famiglia numerosa che si è trasferita dall’assolata California alla ricerca di una vita diversa; lo sono anche Helen e Howard Givings, in apparenza un’amabile coppia di pensionati, che nasconde un figlio schizofrenico in una casa di cura; lo sono persino i colleghi di Frank, come Jack Ordway, sposato con un’ereditiera non più giovane che ha ormai dilapidato tutti i suoi averi.

Queste sono le vite che scorrono oltre le bianche staccionate di Revolutionary Road e che hanno fatto del libro di Yates un capolavoro senza tempo. Siamo nell’America post seconda guerra mondiale, negli anni del Boom economico, in un’epoca che punta tutto sui bisogni del consumatore e quindi dell’individuo: un mondo che sembra rivolto soltanto al benessere, alla realizzazione dei sogni, ma che poi ne chiede il conto.  Yates mostra nei suoi racconti il lato oscuro delle disillusioni, spingendo il lettore fino al punto più profondo dell’abisso, senza temere l’effetto disturbante di un finale tragico. Perché una volta crollato il miraggio della partenza per Parigi, il lettore lo sa, ogni lieto fine è perduto. La conclusione del romanzo appare inevitabile. La morte, per April, rappresenta l’estremo atto di evasione, diventa metafora di quella fuga premeditata che lei cerca di architettare ossessivamente per tutto l’arco della storia.

Un grande merito di Richard Yates come narratore è che, continuando ad alternare il punto di vista, riesce a mantenere la neutralità assoluta tra le ragioni e i torti di ciascun personaggio. Non fa da arbitro, non giudica mai.

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Di Alda Merini o del corpo del canto

Pubblichiamo un articolo della nostra Mara Sabia, comparso anche nella rivista Sineresi, sulla poetica di Alda Merini. Sabato 27 e domenica 28 gennaio, le serate di lettura dalle opere della poetessa milanese, a Roma.

***

(…)
Quando gli amanti gemono
Sono i signori della terra
E sono vicini a Dio
Come i santi più ebbri.
(…)

– A. Merini, Quando gli innamorati si parlano.

 

Piccola ape furibonda, meretrice, santa, sanguinaria, solo una isterica, la pazza della porta accanto. Inutile e riduttivo tentare di definire Alda Merini, anche attraverso le sue stesse autobiografiche definizioni. Conviene piuttosto prendere atto delle infinite, singolari e contraddittorie caratteristiche del suo vissuto e del suo genio. Scrivere di Merini implica trattare l’incandescente materia manicomiale, fare i conti con il canto che sorge terribile e splendido in momenti di una speciale lucidità benché i fantasmi che recitano da protagonisti nel teatro della sua mente provengano spesso da luoghi frequentati durante la follia, come scrive Maria Corti. Una poesia, quella meriniana, in cui spesso bisogna discernere il fango dai diamanti, proprio perché nata in dette, eloquenti, condizioni e che sarebbe impossibile da leggere se fosse scissa dalla biografia della poetessa.

Una poesia difficile, contrariamente a quanto appare e che presenta caratteristiche specifiche e originali. Forse Rilke, o forse nessuno, costituisce, oltre alle matrici classiche, la tradizione a cui si rifà Merini. Una lirica metaforica, dal linguaggio contrastante, forbito e modesto, comune e spirituale, degno di messali, alle volte. Un canto che avvicina Dio e uomo in molteplici modi. Li mischia, li sovrappone, li confonde. Misticamente. Leggere Merini significa prepararsi al dualismo e al compenetrarsi di cielo e terra, di carne e spiritualità, di corpo e anima: probabilmente non vi è aspetto più interessante di questo nella poetica meriniana. Una voce potentemente ossimorica che trae il suo meglio dalla tensione dolorosa della eterna convivenza di angeli e demoni. Per dirlo con le parole di Merini: “solo angeli e demoni parlano la stessa lingua da sempre“. Puro corpo e puro spirito, quasi a ricalcare le Scritture, è il motivo dell’intera opera meriniana e delle figure che la compongono. Gli Amanti sono puro corpo e puro spirito: coloro che umani, terrestri, gemono e contemporaneamente, in tale linguaggio, sono vicini a Dio come i santi più ebbri. Sono puro corpo e puro spirito i matti dipinti nelle pagine del capolavoro la Terra Santa in cui sono profeti, mistici, angeli, santi. Puro corpo e puro spirito sono i poeti, i medici, gli amici della poetessa ritratti in versi. Ella stessa e il suo canto sono pura carne e puro spirito. E allora “corpo” è parola amata e ricorrente. È scelta emblematica nel titolo del testo “Corpo d’amore. Un incontro con Gesù”. Quel Gesù che è pietra, carne e spirito, che da solo si annienta nei sensi e nello spirito per una prova d’amore. Il “corpo” meriniano non è mero un contenitore per l’anima o un mezzo per la poesia, ma è un modo, un mistero meraviglioso, una domanda sconvolta, è la poesia stessa. Scrive Merini: Gli inguini sono tormento/sono poesia e paranoia/delirio di uomini. /Perdersi nella giungla dei sensi, /asfaltare l’anima di veleno,/ma dagli inguini può germogliare Dio. Il corpo qui è poesia, paranoia, perdita, ma anche porta sul divino. Il corpo cantato da Merini è spesso esaltato alla maniera biblica, chiari, ad esempio, sono i riferimenti al Cantico dei cantici: Forse tu hai dentro il tuo corpo/Un seme di grande ragione – scrive Alda Merini nel suo Canto dello sposo, concludendo sfinita di passione – eppure in me è la sorpresa/di averti accanto a morire/dopo che un fiume di vita/ ti ha spinto fino all’argine pieno.

Nella complessità del tema della carne e del corpo in Alda Merini, emergono altri connotati, come ad esempio la bellezza. Bellezza, per la poetessa è ciò che salva l’atto carnale dalla miseria, così come la nudità è salvata dal disgusto, dal pudore. Il corpo senza trascendenza nell’altro non è altro che il ludibrio grigio nominato ne La Terra Santa. In questa ottica anche l’eros si trasforma in arte, in poesia. Gianfranco Ravasi la descrive come capace di intrecciare eros e agape, carne e anima, desiderio e fede: come il peccato cede e travolge la fede stessa/fino a diventare a sua volta/il ritmo stesso della fede. Come il peccato è arte/ e come l’arte è il peccato.

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“Orientarsi con le stelle”, reading dalle poesie di Raymond Carver

Un reading per conoscere Raymond Carver e la sua vita attraverso le poesie dello scrittore americano. Simbolo della resilienza e della scrittura che salva, Carver testimonia con le sue parole la possibilità per ciascuno di ricostruirsi. E lo fa puntellandosi, parola dopo parola – passo dopo passo – con la scrittura. I racconti in primis, genere letterario scelto proprio per il poco tempo che aveva a disposizione, e le poesie, una forma – quest’ultima – che non lo ha mai abbandonato e che Carver utilizzava per “fotografare” la realtà: entità minime che spesso erano l’unità di misura originaria di veri e propri racconti. Non a caso ha scritto anche “racconti in forma di poesia”.

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