la setta dei poeti estinti

“Un uomo che legge ne vale due”, la libreria della Rue Charras di Kaouther Adimi

Kaouther Adimi giovane vincitrice del Premio Goncourt confessa di aver iniziato a scrivere da bambina perché non aveva libri da leggere. Autrice algerina-francofona ha trent’anni ma sembra poco più di una ragazzina, mentre con voce bassa e pacata racconta la trama del suo ultimo libro La libreria della Rue Charras (L’Orma editore), vero e proprio caso letterario in Francia. Solo in apparenza la storia romanzata di un editore, in realtà questo romanzo tra le righe nasconde ben altro: uno scontro culturale che si riflette appieno nell’attualità del nostro presente. Adimi mette in luce con una narrazione semplice e scorrevole il problema dell’Algeria, la sua identità francofona che rende il Paese un incrocio di culture tra l’Europa e l’Africa.

«Non siamo noi ad abitare i luoghi, ma sono i luoghi ad abitare noi», afferma malinconicamente uno dei protagonisti di La libreria della Rue Charras alla fine del libro. Rimane un ultimo testimone, Abdallah, a fare da custode a Nos Richesses quel patrimonio inestimabile di libri e valori che hanno fondato un’intera esistenza sull’idea che, per l’appunto, le vere ricchezze della vita siano quelle testuali, interiori.
Abdallah sosta davanti alla libreria con un telo bianco posato sulle spalle come un sudario, gli occhi neri, talmente scuri che non si riesce a vederne neanche l’iride. Sembra il fantasma di un tempo ormai scomparso, riunisce nella sua persona due binari temporali: passato e presente che tengono le fila della narrazione.

Nel 1936 al due bis della Rue Charras apre le Éditions Charlot. Viene mostrato al lettore dapprima il fermento di un luogo che diventa veicolo di cultura, poi una vetrina opaca, una stanza polverosa che attende di essere sgomberata, ormai ridotta a reperto archeologico di un’altra epoca. In Algeria il ventenne Edmond Charlot, studente difficile e con la testa tra le nuvole, rinuncia all’università per dedicarsi anima e corpo all’impresa di fondare una libreria-casa editrice, incoraggiato dal suo insegnante di filosofia. Scrive sul suo diario il 5 maggio 1936: «Sarà una biblioteca, una libreria, una casa editrice, ma sarà innanzitutto un luogo per gli amici che amano la letteratura e il Mediterraneo».
Quasi un secolo dopo a Parigi, Ryad, studente di ingegneria, cerca disperatamente un’attività da svolgere come tirocinio curricolare. Il caso lo riporterà in Algeria, suo paese natale, incaricandolo di un compito ingrato: sgomberare la libreria di Rue Charras e ritinteggiarla per dare spazio a un nuovo locale, una pasticceria. Nello stesso luogo in cui uno studente si era battuto per amore dei libri, un altro “guarda quei caratteri neri stampati sulla carta e tutto ciò a cui pensa sono gli acari.” (p.76) Costruzione e distruzione della libreria si alternano nel romanzo con un ritmo avvincente in una narrazione ricca di personaggi divertenti e indimenticabili, pervasa dal fascino esotico di un paesaggio dalle mille sfumature di colori e misteri.

Kaouther Adimi ci conduce per mano per le viuzze di una città immaginifica baciata dal sole, facendoci vivere le sue atmosfere e incontrare la sua gente: «Ad Algeri non ci sarà mai un’alba senza una baruffa di gatti» (p.48). Si sente l’azzurro del cielo sulla testa e le piogge improvvise; si assiste all’esordio di scrittori del calibro di Albert Camus e alla tragica fine di Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Il Piccolo Principe, precipitato a bordo del suo velivolo. È la storia di un amore illimitato per la letteratura, capace di sopravvivere alla censura, alle restrizioni imposte dalla guerra che si rivelano nel dramma di “trovare la carta” per continuare le pubblicazioni. Tra attimi di esaltazione, successi e devastazioni, non mancano neppure i momenti di scoramento, riflessi nelle memorie di Charlot: «L’editoria ha condizionato la mia intera esistenza, finirà per portarmi via moglie e figli». (p. 130)

La Libreria della Rue Charras è un libro particolare proprio per l’alternanza di punti di vista che si trova al suo interno, che non frammentano la lettura, al contrario la rendono più avvincente: dalla terza persona singolare alla prima persona plurale, il tutto arricchito dalla narrazione diaristica attraverso l’espediente del fantomatico taccuino di Edmond Charlot.

Nella parte centrale del romanzo rivive anche una pagina inedita di storia: il massacro di centinaia di algerini avvenuto a Parigi il 17 ottobre 1961, un fatto tuttora considerato un “non avvenimento” e non riconosciuto dallo stato francese. Una piaga ancora aperta che viene affrontata in questo libro con un lucidità senza precedenti. Adimi spiazza il lettore adottando in questa descrizione il punto di vista dei francesi. Una prima persona plurale che improvvisamente passa dalla parte del nemico abbracciando il suo sguardo. Una scelta stilistica sorprendente in grado di aggiungere un carico di violenza, di ferocia inaudita alla scrittura, che d’un tratto prende un ritmo vorticoso, una parola dopo l’altra, delineando un’escalation di aggressività e orrore.
Nei libri di storia dei licei francesi il riferimento al massacro occupa poche righe, qui vengono dedicate all’avvenimento parecchie pagine e il tutto viene ricollegato al presente in modo drammatico, lasciando intuire la ferita di una memoria ancora sanguinante.
Un uomo che legge ne vale due”, recita così l’insegna della libreria Nos Richesses. Una scritta duplice, in francese e in arabo, ribadisce la volontà di creare un ponte d’unione tra le due culture.
Tra le pareti di questa stanzetta angusta e polverosa passa la storia del mondo, di intere generazioni. Il progetto di Edmond Charlot dà vita a un ideale di letteratura cosmopolita, senza distinzioni di lingua, nazionalità o religione.
Un messaggio forte che trapela tra le righe e commuove è il potere salvifico dei libri, che risiede nella loro capacità di rivoluzionare le esistenze. Libri che vengono rilegati, stampati, curati nel dettaglio della stampa e delle copertine. Libri spesso offerti in dono, libri che salvano.

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L’Orma editore e la volontà di “portare il mondo in Italia”

Nella piccola e confortevole sede di Via Annia 58, nei pressi del Colosseo, tra bicchieri di vino, un pianoforte, e i gatti Charlie e Pip (poco velato omaggio a Grandi Speranze di Charles Dickens), c’è un universo culturale in fermento, animato da una squadra intellettuale e intraprendente. Gli editori Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, assieme a ai membri della redazione Elena Vozzi e Massimiliano Borelli, ci aprono le porte de L’Orma editore, la casa editrice romana che nell’ottobre 2017 ha festeggiato il suo quinto anno di attività.

Un’Europa possibile si può creare anche attraverso un’idea di letteratura, persino in tempi burrascosi come i nostri, che incitano al separatismo e alla divisione. I libri dell’Orma editore, hanno il grande merito di aver rivelato al panorama italiano autori francesi e tedeschi ancora sconosciuti e di aver dimostrato ai lettori che il mondo è un posto più vasto di quanto credevano.

Oggi abbiamo una definizione onnicomprensiva e vasta di letteratura, che ormai rappresenta tutto e il contrario di tutto, e spesso il catalogo delle case editrici si adegua a questo universalismo di generi e stili. L’aspetto più avvilente dell’attuale realtà commerciale è l’incentivarsi di un’industria editoriale che tende a ridurre il pubblico a una realtà unica e omogenea, appianando gusti e punti di vista.
Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari, ideatori dell’Orma editore, hanno avuto il coraggio di andare controcorrente e proporre una letteratura meno rappresentata, troppo a lungo trascurata dal mercato italiano: la letteratura francese e tedesca che, a loro giudizio, «pagava lo scotto di pregiudizi ormai radicati nel pensiero comune». A lungo, affermano i due editori, c’è stato un “errore prospettico” nella valutazione italiana della letteratura mondiale. Attraverso il loro progetto, Lorenzo e Marco si sono proposti di rimediare a questa imperdonabile mancanza nella nostra cultura, gettandosi a capofitto nella loro personale avventura, con l’ambizione guerresca di conquistare un pubblico e, soprattutto, la mente dei lettori.
Fondare una casa editrice non rientrava esattamente nei loro piani: amici di lunga data, entrambi di formazione accademica, ricercatori e docenti universitari all’estero, avevano una carriera avviata e una posizione stabile, lanciarsi in un’impresa simile poteva apparire a tutti gli effetti un salto nel vuoto. Il progetto è maturato nel tempo e si è risolto con una stretta di mano in Piazza Duomo, a Milano, dove è stata fissata la sede legale della casa editrice. A far scoccare l’idea era stata la loro collaborazione congiunta al sito Sguardomobile, da cui sarebbe nata una collana di saggi di letteratura comparata pubblicata dalla casa editrice fiorentina Le Lettere. Traducendo insieme un testo linguisticamente difficile del poeta irlandese Ciaran Carson, si scoprirono totalmente coinvolti da quel lavoro e, soprattutto, avvertirono la volontà comune di «fare il bene del testo» e restituirlo ai lettori nella versione più adeguata possibile. «La letteratura ha reso le nostre vite qualcosa di molto diverso,» racconta Lorenzo Flabbi «eravamo entrambi uomini di lettere e in quel momento l’idea di poter divulgare la nostra passione ci è apparsa come una sorta di vocazione». Da quell’iniziale progetto deriva la missione fondativa dell’Orma: «Tradurre in Italia ciò che si muove in Europa».
Sono tornati in patria con la volontà di arricchire il loro Paese attraverso il bagaglio culturale della loro esperienza, creando una casa editrice di stampo novecentesco dalla fisionomia editoriale riconoscibile e innovativa.
I libri dell’Orma editore sono maneggevoli grazie al loro formato squadrato, conquistano con le loro copertine colorate, e la riconoscibilità del logo li rende inconfondibili: quei particolarissimi occhi stilizzati che, in realtà, rimandano al saggio sui segni incondizionati dell’Illuminista Humbert de Superville. «I segni incondizionati», spiega Lorenzo Flabbi «sono i segni base da cui deriva tutto, da cui sarebbe possibile ricavare qualsiasi immagine». Allo stesso tempo, aggiungono gli editori, quegli occhi stilizzati dimostrano la loro volontà di mostrarci ciò che tutti noi abbiamo sotto lo sguardo e che troppo spesso, per sbadataggine o disattenzione, non vediamo.
Cesare Pavese nella sua carriera di editor e traduttore per Einaudi affermò che la sua missione era proprio quella di “portare il mondo in Italia” e riuscì nel suo intento aprendo il nostro Paese all’incontro con il mito americano. Lo stesso proposito anima gli editori dell’Orma e la loro collana ammiraglia, la Kreuzville, nata dall’unione di due quartieri in cui entrambi hanno vissuto per anni: Kreuzberg a Berlino e Belleville a Parigi. Attraverso la topografia di questi paesaggi si designa l’immagine di un’Europa futura, fatta di mescolanze, differenze che vengono a contatto e, spesso, anche di contraddizioni. La Kreuzville è molto più di una collana editoriale, è un luogo e uno strumento di pensiero.

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Scrivo di mia madre per metterla al mondo – “Una donna” di Annie Ernaux

«Io credo che, in qualche modo, il mio desiderio di scrivere derivi dal desiderio di mia madre. Mia madre aveva una grande ammirazione per i libri, per gli scrittori. Lei ha avuto un’influenza straordinaria su di me». Con questo delicato e toccante ricordo, Annie Ernaux  risponde a una delle domande di Claire-Lise Tondeur sulle cause che l’hanno spinta alla scrittura, in un’intervista del luglio 1993.

Al di là del talento individuale, tutto viene dunque ricondotto all’immagine di quella donna poco istruita, lavoratrice instancabile che, di tanto in tanto, vedendo la figlia leggere, sospirava: «Ah, se fossi stata capace di farlo mi sarebbe piaciuto scrivere un romanzo».

Un romanzo quella donna non l’ha scritto, ma qualcun altro l’ha fatto per lei: raccontando, con minuzia di particolari, la sua esistenza quasi allo scopo di consegnarle nuovamente la vita. All’origine di questo libro si trova un significato quasi religioso; si potrebbe definire un tentativo di resurrezione.

A questo proposito è di forte impatto emotivo il passaggio di testimone da madre a figlia, quando l’autrice annuncia la sua nascita al futuro e, subito dopo, in un geniale salto temporale recupera le fila della narrazione al presente: «All’inizio del 1940 aspetta un altro figlio. Nascerò in settembre. Ora mi sembra di scrivere su mia madre per, a mia volta, metterla al mondo». ( p.40) Non si tratta di un ritratto angelico, al contrario, tanto umano da risultare quasi diabolico, lo rivelano le prime frasi: «Era violenta»  e ancora «Era una donna che bruciava tutto».

Sempre nell’intervista del 1993, Ernaux afferma: «Un progetto materno terribile ha pesato su di me». L’aspetto “terribile” consiste nella volontà materna di consentire alla figlia di compiere il cosiddetto “balzo sociale” permettendole così di liberarsi da una condizione subalterna attraverso l’istruzione: «elevarsi per lei significava soprattutto imparare.» La vicinanza tra i due mondi, rurale-operaio e borghese, posti spesso in opposizione, sarà uno dei temi più ricorrenti nella scrittura della Ernaux, e in particolare all’origine di quel particolare sentimento di “vergogna sociale” che l’ha perseguitata per tutta la vita: la vergogna per le proprie origini e, allo stesso tempo, l’inestinguibile senso di colpa dettato da questa vergogna. Una frase, soprattutto, esemplifica l’ambiguità di questo conflitto: In certi momenti aveva in sua figlia, di fronte a lei, un nemico di classe.     

Ѐ quasi commuovente il valore incommensurabile attribuito alla cultura da parte di una donna che gestiva un bar-drogheria in un piccolo paesino della Senna Marittima; una commerciante che nella vita di tutti i giorni doveva preoccuparsi di faccende ben più materiali e urgenti, come far tornare i conti, gestire i clienti, tirare avanti l’attività per sfamare la famiglia.  «I libri erano gli unici oggetti che lei maneggiava con attenzione e precauzione. Si puliva sempre le mani, prima di toccarli».

Annie Ernaux, quattro anni dopo Il Posto  (l’opera sulla vita del padre che l’ha consacrata al giudizio della critica) nel 1987, a seguito della morte della madre, scrisse questo libro, avvalendosi ancora una volta di uno stile affilato, scarno, che procede per paragrafi brevi, elenchi, ripetizioni. Une femme, per l’appunto. Il romanzo fu pubblicato dall’editore Gallimard nel 1988, apparve per la prima volta in Italia presso Guanda nello stesso anno con il titolo “Una vita di donna”. A quasi trent’anni di distanza, L’Orma editore ce ne riconsegna l’edizione italiana con una traduzione di Lorenzo Flabbi, vincitore del Premio Stendhal per Memoria di ragazza, precedente libro della Ernaux pubblicato nell’aprile 2017.

Una donna. Ѐ bene sottolineare la rilevanza dell’articolo indeterminativo nel titolo, rivela l’intenzione di voler racchiudere in sé un’esperienza universale che trascende il significato della vita individuale. All’intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia, secondo la volontà dell’autrice che ha coniato questo nuovo genere letterario definibile come “Autobiografia impersonale”, in cui il punto di vista mantiene sempre una certa distanza oggettivante dai fatti narrati, senza indugiare nel lirismo né nell’introspezione. Una ricostruzione accurata che non si adagia nel patetismo del ricordo o delle descrizioni minuziose.

Più che una narratrice, un’archivista, come lei stessa si definisce: «Questo sapere trasmesso per secoli da madre in figlia si ferma a me, che ormai ne sono soltanto l’archivista».

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Revolutionary Road, il dramma moderno di un amore perfetto

«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». L’incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj sembra sintetizzare alla perfezione la trama del romanzo di Richard Yates, Revolutionary Road.

Definito dalla critica “una tragedia contemporanea”, il libro di Yates ritrae un matrimonio sull’orlo dell’abisso: attraverso il lento declino di una coppia della middle-class americana degli anni ’50 viene messa in luce, innanzitutto, la crisi dell’individuo che ha perduto i propri punti di riferimento. Frank e April Wheeler possiedono, in apparenza, tutto quanto potrebbero desiderare: sono una coppia giovane e di bell’aspetto, con due bambini biondi e vivaci, vivono in una bella casa dotata di ogni comfort nel quartiere residenziale di Revolutionary Hill, nei sobborghi di New York.

Il circondario di Revolutionary Road, scrive Yates, non è stato progettato in funzione di una tragedia: le staccionate sono accuratamente dipinte di bianco, i prati puliti e tagliati di fresco. La sera le luci si accendono all’interno di tutte le case lasciando fuori l’oscurità e ogni incertezza. Nelle pagine finali della storia, Yates dirà: «Un uomo intento a percorrere di corsa queste strade, oppresso da un disperato dolore, era fuori posto in modo addirittura indecente». Ma il presagio della fine è avvertibile fin dal principio: l’ambientazione da fiaba, dalle tinte color pastello, che fa da sfondo alle vite dei due protagonisti talvolta appare come un gigantesco castello di carte destinato a ripiegarsi su se stesso; quella stessa casa sulla collina che dovrebbe costituire il rifugio da tutti i mali è in realtà una trappola, un inferno privato creato dalle stesse persone che lo abitano. Ben presto il lettore viene invitato a vedere oltre la superficie, scoprendo così quali drammi personali agitano gli abitanti di Revolutionary Road. La vita dei Wheeler non è affatto come sembra: non sono una famiglia felice, ma una coppia in perenne stato di tensione, insoddisfatta, che riesce solo a rinfacciarsi ambizioni frustrate, nella nostalgica commemorazione di una giovinezza dove tutto era ancora possibile. Delusi dalla loro esistenza, ma ancor più da loro stessi, marito e moglie vivono la loro realtà, la vita familiare, quasi si trattasse di una trappola e sognano di evadere progettando un viaggio-fuga a Parigi, per sfuggire alla quotidianità soffocante, alle ipocrisie, all’educato gioco di finzioni che li circonda. In entrambi i protagonisti si avverte il desiderio di fuggire da una vita che non hanno scelto, e in cui si sentono intrappolati senza scampo. Le pagine del romanzo ci rivelano, con un sapiente uso dei flashback, l’amara verità di una famiglia nata quasi per necessità, in seguito alla notizia inaspettata dell’arrivo del primo figlio. Dopo sette anni, il matrimonio sembra essere giunto al capolinea e il libro si apre in medias res mostrandoci due persone incapaci di capirsi e di comunicare, se non tramite litigi furibondi.

Il viaggio alla volta di Parigi, fantasticato da April, è la metafora del desiderio, di una felicità ancora possibile. Visti da vicino, i personaggi di Yates sono “squallidi”, infelici, raramente possiedono delle caratteristiche positive. E, soprattutto, vivono in una condizione di solitudine senza scampo; quel nuovo genere di solitudine tipica del XX secolo, a cui solo un narratore come Yates può dare voce,  la si potrebbe definire “solitudine dell’incomunicabilità”.

Frank Wheeler trascorre le sue giornate al quindicesimo piano del Knox Building Center, facendo quello che lui stesso definisce “il lavoro più cretino del mondo,” nel mentre intrattiene una relazione clandestina con una collega dell’ufficio per non lasciarsi annientare dalla noia. Tutte le persone che circondano Frank e April sono insoddisfatte per qualche ragione, oppure nascondono un’infelicità segreta: lo sono i loro amici più intimi, i Cambpell, famiglia numerosa che si è trasferita dall’assolata California alla ricerca di una vita diversa; lo sono anche Helen e Howard Givings, in apparenza un’amabile coppia di pensionati, che nasconde un figlio schizofrenico in una casa di cura; lo sono persino i colleghi di Frank, come Jack Ordway, sposato con un’ereditiera non più giovane che ha ormai dilapidato tutti i suoi averi.

Queste sono le vite che scorrono oltre le bianche staccionate di Revolutionary Road e che hanno fatto del libro di Yates un capolavoro senza tempo. Siamo nell’America post seconda guerra mondiale, negli anni del Boom economico, in un’epoca che punta tutto sui bisogni del consumatore e quindi dell’individuo: un mondo che sembra rivolto soltanto al benessere, alla realizzazione dei sogni, ma che poi ne chiede il conto.  Yates mostra nei suoi racconti il lato oscuro delle disillusioni, spingendo il lettore fino al punto più profondo dell’abisso, senza temere l’effetto disturbante di un finale tragico. Perché una volta crollato il miraggio della partenza per Parigi, il lettore lo sa, ogni lieto fine è perduto. La conclusione del romanzo appare inevitabile. La morte, per April, rappresenta l’estremo atto di evasione, diventa metafora di quella fuga premeditata che lei cerca di architettare ossessivamente per tutto l’arco della storia.

Un grande merito di Richard Yates come narratore è che, continuando ad alternare il punto di vista, riesce a mantenere la neutralità assoluta tra le ragioni e i torti di ciascun personaggio. Non fa da arbitro, non giudica mai.

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“Io nel pensier mi fingo”, la poetica di Giacomo Leopardi

In occasione dell’incontro di lettura che si terrà il 9 gennaio, vi proponiamo una riflessione sulla poetica di Giacomo Leopardi, scritto da Alice Figini.

***

Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Qualsiasi uomo, di qualsiasi epoca, si identifica con il percorso del pastore, con il suo cammino accidentato, riconosce le domande impellenti rivolte alla Luna che  non otterranno mai risposta e che, almeno una volta, ciascuno nel suo intimo ha espresso a se stesso. Nel  Canto notturno di un pastore errante dell’Asia si manifesta la definizione universale di ogni poesia: nella singolarità dell’io poetico che rivolge domande all’infinità del cielo si riflette un’umanità collettiva, che soffre, si dispera e, ciononostante, vive.  E questo sentire diventa una traccia capace di travalicare il tempo e lo spazio. Dopotutto cos’è la scrittura se non una traccia, uno scarto, qualcosa che resta dell’anima?

Giacomo Leopardi è stato una delle figure più produttive della nostra letteratura, scrisse moltissimo per tutta la vita, mettendo la sua stessa esistenza al servizio della scrittura. Più di trecento opere, a cui si aggiunge la corposa mole, ben 4526 pagine, del suo diario personale, lo Zibaldone che tratta, sul piano filosofico, argomenti di ogni genere.

La poesia di Leopardi, come testimonia l’immensità del canto “L’Infinito”, è tutta penetrata nella mente ed è proprio questa caratteristica a renderla immortale. «Io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura», ciò che percepiamo, attraverso queste parole, è un presente vitale che non cesserà mai di essere. Si tratta di uno spazio del pensiero, intangibile e illimitato, che dà all’esistenza una parvenza di immortalità. Siamo tutti abitati da sempre da una “irrequietezza vitale” che nelle opere di Leopardi prende corpo e vita. Attraverso uno sguardo che indaga nell’umano, il poeta di Recanati è riuscito meglio di chiunque altro a esprimere la “straziante e meravigliosa bellezza del creato”, consegnandoci, attraverso i suoi componimenti, una domanda esistenziale che ancora non trova risposta e che difficilmente sarà esaudita, come una preghiera.

Si tende talvolta a confondere il pessimismo di Leopardi con la malattia che lo costrinse a una vita ritirata, in perenne stato di meditazione. In realtà la malattia non fu mai un fattore limitante nella sua espressione artistica, ma rappresentò piuttosto “uno strumento conoscitivo” che gli permise una più profonda analisi interiore. Tutti i suoi scritti, infatti, mirano all’interiorità e forse proprio per questo motivo riescono così facilmente a entrare in contatto con l’anima dei lettori.

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“Materia prima”, il romanzo di Jörg Fauser sulla “sete” di senso e di vita

È considerato uno dei capisaldi della controcultura tedesca, di quella vena undergorund a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta nella Germania del Muro di Berlino, eppure in Italia è arrivato solo nel 2017.  “Materia prima” (“Rohstoff“, in tedesco), romanzo scritto nel 1984 da Jörg Fauser e tradotto da Daria Biagi, è stato pubblicato nel nostro Paese per i tipi L’Orma editore, una casa editrice che sta traducendo e mandando in stampa piccole e grandi rarità della letteratura francese e tedesca.

“Materia prima” ripercorre per molti aspetti proprio le vicende biografiche di Fauser, scrittore “più noto nell’ambiente delle forze dell’ordine che non nei circoli letterari“, come sottolinea Daria Biagi nella postfazione. Il protagonista del romanzo si chiama Harry Gelb, studente alla soglia dei trent’anni, preso nel gorgo delle droghe ma ossessionato dal dover “combinare qualcosa nella vita“, vero e proprio mantra di una generazione. Pena il fallimento.

A diciotto anni, dopo due fugaci infatuazioni per la politica e per la religione, mi era già chiaro che fare lo scrittore sarebbe stato per me l’unico modo di scrollarmi di dosso l’apatia, e magari addirittura di combinare qualcosa nella vita.

Ed è in questa continua ricerca di un equilibrio interiore ma anche “esteriore” che Gelb passa da un lavoro a un altro, da una donna a un’altra – sempre portandosi dietro una macchina da scrivere o un taccuino e il manoscritto di un romanzo che in tutti i modi cerca di far pubblicare: “Stamboul Blues“. Quella di Gelb in realtà è una tremenda “sete” di vita, di significato, di materia prima – appunto – di sostanze, siano queste droghe o esperienze. Gelb si trova infatti più a suo agio nelle bettole che non negli uffici della Bundesbank, dove pure capiterà – salvo fuggirne poco dopo. Nei bassifondi piuttosto che negli ambienti borghesi. In tutti quei luoghi e quelle circostanze in cui l’uomo rivela se stesso senza schemi.

Lo Schmales era qualcosa di più che un posto dove farsi una birra, l’osteriaccia o il baretto evocati in mille canzoni. Lo Schmales era il rifugio di cui molti avevano bisogno nel bel mezzo del proprio Paese, il porto franco in cui potevano venire a patti con i proprio sogni, una casa per la quale non c’era bisogno di mutui, di garanzie e di mobili, senza letti rifatti e senza mogliettine, ma dove tutto quello che serviva era una sete inestinguibile e la sensazione che il tuo vicino, chiunque fosse e qualunque aspetto avesse, se si era portato dietro abbastanza sete, potesse essere per una sera anche tuo amico.

E se la vita di Gelb si dipana tra le Comuni e i bassifondi di città come Berlino, Francoforte e Istanbul, tra anarchici, rivoluzionari e pseudoterroristi, la tensione di Gelb è diretta sempre verso un’improbabile ricerca di senso: Harry rifiuta la società proprio come gli anarchici cui si accompagna ma ne è al contempo affascinato e utilizza la scrittura e il proprio sguardo per comprenderlo e dissezionarlo.

Gironzolai a passi lenti per l’atrio della stazione, feci entrare i rumori dentro di me raccogliendo istantanee. Negri in uniforme ballavano sulla musica della radio a transistor, un vecchio vagabondo attaccava briga con gli sbirri, camioncini elettrici portavano ai treni i sacchi della posta, jugoslavi al chiosco delle birre reclamavano ad alta voce un’ultima bevuta. Un dandy faceva le poste a una marchetta, le puttane si slogavano le caviglie sui tacchi a spillo, i borseggiatori in attesa davanti agli sportelli bancari, eleganti signore dalle espressioni scostanti al braccio di uomini in piedi sotto un divieto di sosta, famiglie indiane  con uno stuolo di bambini e di valigie, e fuori la notte, col suo turbinio di sirene.

“Materia prima” è in realtà una critica a tutti i sistemi sociali, siano questi in essere o utopico-rivoluzionari: ciascuno a modo proprio proponeva e pretendeva l’adesione a regole e stili. Ciascuno uniformava, escludeva, metteva sete. 

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Nella stanza di Stephen King

Si può leggere quasi dovunque, ma per quanto riguarda la scrittura, le scrivanie con separatori delle biblioteche, le panchine dei parchi e le sistemazioni temporanee dovrebbero rappresentare l’ultima spiaggia. Truman Capote asseriva di sbrigarsela a meraviglia nelle camere d’albergo, ma si tratta di un’eccezione: il resto di noi se la cava al meglio in un luogo tutto per sé. Finché non ne scoverete uno, vi sarà difficile prendere sul serio la vostra recente decisione di lavorare sodo.

[…] John Cheever scriveva nella cantina del suo appartamento di Park Avenue, vicino alla caldaia. Il vostro può essere un angolo modesto (anzi, forse è preferibile che lo sia, come credo di avere accennato), con un solo particolare davvero necessario: una porta che siate disposti a chiudere. E’ una maniera per ribadire a voi stessi e al mondo intero che non state menando il can per l’aia: vi siete assunti un impegno della massima importanza e non volete passare per sbruffoni.

Dopo essere entrati nel vostro nuovo posticino e avere sbarrato l’uscio, vi fisserete un obiettivo quotidiano. all’inizio, come con l’esercizio fisico, sarebbe meglio non esagerare, per evitare di scoraggiarvi. Vi suggerisco un migliaio di parole al giorno e, giusto per essere magnanimo, vi consento di staccare per ventiquattr’ore alla settimana, ma solo per i primi tempi. Non di più, altrimenti la vostra storia perderà in entusiasmo e immediatezza. Una volta stabilito il traguardo, ripromettetevi di non aprire la porta finché non lo avrete raggiunto. Sbrigatevi, mille parole, su carta o floppy disk. In una vecchia intervista, probabilmente per il lancio di Carrie, il conduttore di un programma radio mi chiese come scrivessi. “Una parola per volta”, gli risposi, lasciandolo di stucco. Forse era indeciso se scherzassi o meno. Nossignore, stavo dicendo sul serio. In fin dei conti non è difficile. Che sia un raccontino o una trilogia epica del calibro de Il Signore degli anelli, si procede sempre nel solito modo, mettendo una parola in fila all’altra. La porta serve a tenere fuori il resto dell’umanità, ma anche a non farvi uscire e permettervi di concentrarvi sul lavoro.

Se possibile, nel vostro posticino non dovrebbero esserci un telefono e men che meno televisori o videogiochi con i quali sprecare minuti preziosi. Se c’è una finestra, accostate le tende o le imposte, sempre che non si affacci su un muro intonacato di bianco. Per tutti gli autori, ma in particolare per quelli in erba, è consigliabile eliminare fonti di distrazione. Proseguendo a scrivere le filtrerete spontaneamente, ma sulle prime è meglio risolvere il problema alla radice. Io lavoro con un sottofondo di musica a palla, affezionato da secoli all’hard rock di AC/DC, Metallica e Guns N’ Roses, ma per me si tratta di un’alternativa al chiudere la porta. Mi avvolge, strappandomi alla mera quotidianità. Quando scrivete, non volete abbandonarvi il mondo alle spalle? Certo che sì, perché state dando vita al vostro universo personale.

Forse in realtà stiamo parlando di una specie di sonno creativo. Come la vostra camera da letto, anche il vostro posticino  dovrebbe essere appartato, uno spazio riservato ai sogni. La tabella di marcia (entrare grosso modo alla stessa ora ogni giorno, uscire con le mille parole su carta o floppy) ha il compito di allenarvi a sognare, di prepararvi a questo evento, proprio come vi apprestaste a dormire coricandovi puntuali la sera dopo gli immancabili rituali del caso. In entrambe le circostanze, impariamo a restare immobili con il corpo, spingendo la mente a librarsi sopra la monotonia della razionalità quotidiana. E come abituate intelletto e fisico a una determinata quantità di riposo notturno (sei, sette ore, magari persino le otto raccomandate dai medici), così da svegli vi impratichirete del sonno creativo, trasformando i sogni a occhi aperti in narrativa di qualità.

Però vi servono una stanzetta, una porta, la risolutezza per chiuderla e un obiettivo concreto. Più a lungo vi atterrete a queste regole e più facile diventerà scrivere. Non aspettate l’arrivo della musa. A costo di ripetermi, è un tizio cocciuto, poco disposto a svolazzare in giro spargendo la sua polverina. Qui non stiamo discutendo di spiritismo o tavole Ouija, ma di un impiego qualunque, tipo installare tubazioni o guidare autoarticolati.Sarà vostro preciso compito accertarvi che la musa sappia dove scovarvi dalle nove a mezzogiorno o, poniamo, dalle sette alle tre del pomeriggio. Se righerete dritto, vi assicuro che prima o poi il nostro amico comincerà a fare capolino, masticando un sigaro e dando fondo alle sue magie.

[Tratto da Stephen King, “On writing – autobiografia di un mestiere”, Frassnielli, 20 euro]

La recensione: Gli anni del nostro incanto, di Giuseppe Lupo

I fiori nel portapacchi papà li aveva regalati a mamma un mattino di aprile, per l’anniversario delle nozze. Aveva appena smesso di piovere, ma le strade erano asciutte, tanto che nella foto dove ci siamo tutti non si vedono pozzanghere. Io sono quella che mia madre stringe al petto. Ero nata quasi da un anno, ridevo come un angelo al vento della Vespa e l’aria mi entrava in bocca.

Mamma non se n’era accorta. Nella foto ha il busto rigido, lo sguardo preoccupato dalle manovre di papà che zizgzagava da spadaccino tra le automobili e i cartelli. Sembra voglia chiedere di andare piano, ma ha paura di distrarlo, solo qualche ciocca dei capelli sfugge al controllo delle forcine. Era la sua pettinatura preferita.: un toupet morbido e con qualche ciuffo ribelle, come deve essere nelle regole dell’età in cui il sangue è ancora acerbo e i giorni sono lunghi, perché è così che si annuncia la vita sbarluscenta, come la chiamava lei, l’epoca luminosa che tutti noi attraversiamo, quando ci sentiamo il mondo in tasca.

In un’epoca come la nostra in cui lo strumento dei social network permette con pochi clic di condividere fotografie, scatti e ricordi, il romanzo “Gli anni del nostro incanto” – scritto da Giuseppe Lupo e pubblicato da Marsilio – fa pensare. Tutto parte da una memoria, da una fotografia pubblicata sulla rivista Gioia, che ritrae una famiglia mentre in Vespa attraversa Milano. Uno scatto che il giornale mette in pagina per raccontare la spensieratezza degli anni del boom economico italiano, quando ancora si poteva andare in Vespa con il vento tra i capelli e senza obbligo del casco, quando il futuro era una prospettiva e nelle case iniziavano a entrare le prime lavatrici, le televisioni, le moderne cucine e tutti quei beni di consumo che avrebbero poi caratterizzato l’apparenza di tanta borghesia italiana.

Ed è proprio l’immagine di quella famiglia spensierata, che non ha paura di cadere dalla Vespa mentre Louis – questo il nome del padre – guida con sguardo sicuro nelle strade di Milano, a scatenare un terremoto emotivo in chi – trascorsi ormai vent’anni da quello scatto – è rimasto. In chi di quella famiglia è riuscito a non farsi travolgere dalla vita, dagli eventi.

Se è vero che nella testa di mia madre si è scatenato un terremoto, sarà stato per la sorpresa di trovarsi dentro un pezzo di carta, tutti e quattro insieme, lei che aveva in odio quel perverso meccanismo di fermare il tempo nelle foto, a cui gli uomini ricorrono quando chiedono di capire l’eternità. Immagino cosa avrà pensato nel vedere la sua famiglia sotto gli occhi di tutti, nel vedere se stessa dentro un frammento di felicità violata, lei con sua figlia in braccio, lei con il marito davanti e con i sogni di quel viaggio verso un punto di Milano che la foto non dichiara. Nato per essere una festa da affidare ai segreti delle nostre intenzioni, quel giorno è stato come un sentirsi allo scoperto, nel pieno di quegli anni che su Gioia sono definiti felici e che, […] papà […] avrebbe chiamato anni alti: la famosa età sbarluscenta che abbiamo attraversato a bocca aperta, adulti e bambini, carichi di meraviglia e con il vento a riempirci la gola.

Nessuno potrà mai confermare se siano queste le ragioni che hanno svuotato la memoria di mia madre e io fatico a credere che una foto pubblicata su un rotocalco abbia avuto il potere di gettare lei nel mare della dimenticanza.

Se i romanzi precedenti scritti da Lupo avevano all’interno una forte componente utopica che pervadeva gruppi e famiglie facendosi tradizione di luoghi e territori, “Gli anni del nostro incanto” capovolge la scena: l’utopia è privata, custodita dal singolo ormai immerso nel contesto cittadino, in un progresso che resta sullo sfondo ma che macina e dimentica vite e solitudini nella modernissima Milano e la “sbarluscenza” sopravvive in un reale corrosivo, capace di fiaccare e spezzare le speranze. Le ombre lentamente – metro dopo metro, tempo dopo tempo – si allungano inevitabili sulla famiglia, primo tra tutti dilaga quel “male della silenziosità” che affligge fin da piccolo uno dei figli, ma anche i rapporti tra moglie e marito. Louis – il padre visionario e entusiasta di vite e imprese – sarà tra i primi ad esserne travolto.

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Perché gli insetti sono tutti a dormire

Quando mi sono accorto di aver dimenticato su una sedia in libreria quel piccolo libriccino — sottolineato a matita, appuntato e con una selva di orecchiette al margine della pagina — la sensazione è stata tremenda. Già, perché i racconti di Valerio Valentini sono di quelli che quando finisci di leggerli ti mancano tremendamente.

Storie brevi, a volte brevissime, fotografie di realtà in cui ciascuno di noi può ritrovarsi ogni giorno, al prossimo passo. Storie con uno stile piano, diretto, leggero. Un misto tra la leggerezza di Calvino l’asciuttezza di Carver, con un’attenzione spasmodica ai particolari — che siano gesti o situazioni od oggetti, non importa. Qualsiasi dettaglio, nei racconti di Valerio, diventa portatore di senso, di storia, si fa simbolo e richiamo: alla vita passata, al presente con il suo carico di inquiete relazioni, a un futuro impossibile perché negato o compromesso proprio da quel preciso “scatto” fissato nel racconto.

Lo stile è chiaro, pulito, di una precisione quasi clinica che va ad asciugare quanto più possibile la scrittura per renderla immediata e diretta. E poi ci sono gli incipit:

Era uno strano comportamento, un modo di fare che non aveva mai visto in sua moglie. Non per il fatto che fossero almeno un paio di mesi che non lo aiutava a fare il nodo alla cravatta la mattina appena svegli, ma soprattutto per il modo in cui si pettinava.

Nell’incipit di “Movimenti delicati” c’è tutto: c’è il simbolo che racconta una presunta o temuta distanza — il dettaglio del “mancato” nodo alla cravatta — c’è il sospetto per un comportamento anomalo, c’è la paura di una coppia che inizia a osservarsi dall’esterno, c’è quello scientifico appuntare i dettagli sui rispettivi comportamenti che tutti quanti noi mettiamo in atto — coscientemente o meno — tutti i giorni.

Così come l’atmosfera di sospensione notturna che si respira nella pagina del racconto “Cattuboli” che — con una battuta di uno dei personaggi — dà il titolo all’intera silloge, viene comunicata da mezza frase, dove il particolare diventa una sensazione quasi tattile di silenzio, che avvolge e trascina il lettore proprio lì, a bordo piscina, nel racconto:

“E’ una serata fresca, gli insetti sono tutti a dormire”, fece la donna.

E ancora, sempre nello stesso racconto:

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