la setta dei poeti estinti

“Io nel pensier mi fingo”, la poetica di Giacomo Leopardi

In occasione dell’incontro di lettura che si terrà il 9 gennaio, vi proponiamo una riflessione sulla poetica di Giacomo Leopardi, scritto da Alice Figini.

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Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Qualsiasi uomo, di qualsiasi epoca, si identifica con il percorso del pastore, con il suo cammino accidentato, riconosce le domande impellenti rivolte alla Luna che  non otterranno mai risposta e che, almeno una volta, ciascuno nel suo intimo ha espresso a se stesso. Nel  Canto notturno di un pastore errante dell’Asia si manifesta la definizione universale di ogni poesia: nella singolarità dell’io poetico che rivolge domande all’infinità del cielo si riflette un’umanità collettiva, che soffre, si dispera e, ciononostante, vive.  E questo sentire diventa una traccia capace di travalicare il tempo e lo spazio. Dopotutto cos’è la scrittura se non una traccia, uno scarto, qualcosa che resta dell’anima?

Giacomo Leopardi è stato una delle figure più produttive della nostra letteratura, scrisse moltissimo per tutta la vita, mettendo la sua stessa esistenza al servizio della scrittura. Più di trecento opere, a cui si aggiunge la corposa mole, ben 4526 pagine, del suo diario personale, lo Zibaldone che tratta, sul piano filosofico, argomenti di ogni genere.

La poesia di Leopardi, come testimonia l’immensità del canto “L’Infinito”, è tutta penetrata nella mente ed è proprio questa caratteristica a renderla immortale. «Io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura», ciò che percepiamo, attraverso queste parole, è un presente vitale che non cesserà mai di essere. Si tratta di uno spazio del pensiero, intangibile e illimitato, che dà all’esistenza una parvenza di immortalità. Siamo tutti abitati da sempre da una “irrequietezza vitale” che nelle opere di Leopardi prende corpo e vita. Attraverso uno sguardo che indaga nell’umano, il poeta di Recanati è riuscito meglio di chiunque altro a esprimere la “straziante e meravigliosa bellezza del creato”, consegnandoci, attraverso i suoi componimenti, una domanda esistenziale che ancora non trova risposta e che difficilmente sarà esaudita, come una preghiera.

Si tende talvolta a confondere il pessimismo di Leopardi con la malattia che lo costrinse a una vita ritirata, in perenne stato di meditazione. In realtà la malattia non fu mai un fattore limitante nella sua espressione artistica, ma rappresentò piuttosto “uno strumento conoscitivo” che gli permise una più profonda analisi interiore. Tutti i suoi scritti, infatti, mirano all’interiorità e forse proprio per questo motivo riescono così facilmente a entrare in contatto con l’anima dei lettori.

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“Orientarsi con le stelle”, reading dalle poesie di Raymond Carver

Un reading per conoscere Raymond Carver e la sua vita attraverso le poesie dello scrittore americano. Simbolo della resilienza e della scrittura che salva, Carver testimonia con le sue parole la possibilità per ciascuno di ricostruirsi. E lo fa puntellandosi, parola dopo parola – passo dopo passo – con la scrittura. I racconti in primis, genere letterario scelto proprio per il poco tempo che aveva a disposizione, e le poesie, una forma – quest’ultima – che non lo ha mai abbandonato e che Carver utilizzava per “fotografare” la realtà: entità minime che spesso erano l’unità di misura originaria di veri e propri racconti. Non a caso ha scritto anche “racconti in forma di poesia”.

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La stella polare: l’incontro tra Raymond Carver e la poesia

Tanti anni fa – sarà stato nel ’56 o ’57 – quando non avevo ancora vent’anni, ma ero già sposato e mi guadagnavo da vivere facendo le consegne a domicilio per un farmacista di Yakima, una cittadina nella parte orientale dello stato di Washington, un giorno andai a portare un ordine in una casa nella parte ricca della città. Fui invitato a entrare da un signore molto anziano, ma lucidissimo, che indossava un cardigan. Mi chiese di aspettare un momento in salotto mentre andava a prendere il libretto degli assegni.

In quel salotto c’erano un sacco di libri. I libri erano proprio dappertutto: sui tavolinetti e sui ripiani, sul pavimento accanto al divano, ogni superficie a disposizione era adibita a punto di appoggio per libri. C’era anche una piccola libreria contro una delle pareti. (Non avevo mai visto una biblioteca personale prima di allora; file e file di libri sistemati su appositi scaffali in una casa privata). Mentre aspettavo e il mio sguardo vagava su tutti quei libri, notai che sul tavolinetto c’era una rivista con un titolo singolare e, per me, sorprendente, sulla copertina: Poetry. Ne rimasi colpito e la presi in mano. Era il mio primo contatto con una “rivista letteraria”, oltre che con una rivista di poesia, e la cosa mi lasciò di stucco. Forse mi venne un po’ di avidità e così presi anche un libro, un volume intitolato The Lillte Review Anthology, a cura di Margaret Anderson. (Dovrei aggiungere che, all’epoca, cosa volesse dire “a cura di” per me era un mistero). Feci scorrere tra le dita le pagine della rivista e, cosa ancor più audace, cominciai a sfogliare quelle del libro, che era pieno di poesie, ma conteneva anche brani di prosa e altre cose che sembravano note o persino intere pagine di commenti sui pezzi scelti. Che cosa mai vuol dire tutto questo?, mi chiesi. Non avevo mai visto prima un libro del genere – né, tantomeno, una rivista come Poetry. Spostavo gli occhi dall’uno all’altra e li desideravo segretamente tutti e due.

Quando l’anziano signore finì di scrivere l’assegno, come se mi avesse letto nel cuore, mi disse: “Prendilo pure quel libro, figliolo. Può darsi che ci trovi qualcosa che ti piace. Ti interessa la poesia? Perché non prendi anche la rivista? Magari un giorno scriverai qualcosa anche tu. Se è così, dovrai pur sapere dove mandarla”. Dovrei mandarla. Non sapevo bene cosa, ma sentivo che stava succedendo qualcosa di importante. Avevo solo diciotto o diciannove anni ed ero ossessionato dall’idea di dover “scrivere qualcosa” e già a quell’epoca avevo goffamente tentato di scrivere qualche poesia. Ma non mi era mai passato per la testa che ci potesse essere un posto dove in effetti si mandavano i propri tentativi con la speranza che venissero letti e forse addirittura – incredibile, o almeno così mi pareva allora – presi in considerazione per essere pubblicati. Però avevo proprio in mano la prova concreta che da qualche parte nel vasto mondo c’erano delle persone responsabili che, Gesù buono, facevano uscire tutti i mesi una rivista di poesia. Ero attonito; come ho detto, mi sentivo davanti a una rivelazione. Ringrazia l’anziano signore diverse volte e lasciai la sua casa. Consegnai il suo assegno al mio capo, il farmacista, e mi portai a casa Poetry e The Little Review Anthology. E così cominciò la mia istruzione. 

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“Sul cuor della terra”, Luigi Lo Cascio legge i poeti siciliani

Ogni parola è percorsa dalla voce, le singole lettere si disegnano nella luce soffusa del faro di scena, a formare senso e significato. La frase è il risultato di un attento percorso di ascolto e pronuncia, la lettura cadenza timbro e tono, racconta, percorre, trasmette l’interpretazione. Sono queste le prime impressioni che ci si porta dietro uscendo dal reading di Luigi Lo CascioSul cuor della terra, che ieri al Teatro Vascello di Roma ha portato in scena le parole e le poesie dei poeti siciliani del Novecento.

E che la poesia sia interpretazione, lo ha dimostrato l’incipit del reading: una lettura poetica della prima pagina della “Diceria dell’untore“, la più nota opera di Gesualdo Bufalino. Complice una scrittura cesellata come può esserlo quella dello scrittore siciliano, l’impressione del pubblico è stata che si trattasse di una poesia. Solo alla fine Lo Cascio ha spiegato che si trattava dell’incipit di un romanzo:

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più retratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).

Nonostante una serie di problemi tecnici all’audio dei microfoni – prima un tremendo e continuo gracchiare dell’archetto, poi il jack del “gelato” che si è staccato – Lo Cascio ha percorso la poesia siciliana del Novecento attraverso le parole, i poeti e la storia dell’isola. Dopo un primo excursus sul Pirandello poeta, attraverso la poesia di Salvatore Quasimodo “Al padre” Lo Cascio ha ricordato i giorni drammatici del terremoto di Messina del 1908, con una città devastata, oltre 80mila morti e fucilazioni sommarie in strada di quanti venivano sorpresi a rubare nelle case distrutte. Nei suoi versi – scritti per i 90 anni del padre, un ferroviere ormai in pensione – Quasimodo raccontava infatti la città ma anche le gesta di un uomo con cui non riuscì mai ad instaurare un vero rapporto. E davanti alla distruzione della città, il poeta ricorda suo padre: “la tua pazienza / triste, delicata, ci rubò la paura“. Parole che lette nel silenzio dell’ascolto di un teatro, scavano e raccontano:

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Nella mia stanza

libriNella mia stanza ho talmente tanti libri che la loro presenza mi conforta. Un po’ come la religione – forse molto meglio, o forse ne sono anch’essi uno strumento – non ti fanno sentire mai solo. Sono una sorta di fede nelle potenzialità espressive e artistiche insite nel genere umano. Ogni libro è un trattato di scienza sull’uomo che guarda l’uomo. E’ una storia d’amore dello sguardo con il mondo. Quasi fossero loro – i libri – l’ultimo spazio vero in cui l’uomo riesce a esser tale, lasciando da parte il cinismo gelido e viscido – come neve sporca – che spesso ci si attacca ai piedi, alle caviglia e su su fino all’anima. 

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