la setta dei poeti estinti

Se l’algoritmo censura Catullo

Ieri è accaduto un fatto curioso. Sui nostri social abbiamo pubblicato un carme di Catullo e dopo qualche ora abbiamo ricevuto una notifica da parte di Instagram in cui ci veniva comunicata la rimozione del post perché violava le linee guida della piattaforma e, anzi, si inscriveva nei discorsi inneggianti all’odio. Siamo rimasti interdetti. Sulle prime ci siamo assicurati che quel post non avesse creato altri danni – come la chiusura automatica dell’account. Così non era, per fortuna. 

E’ di qualche giorno fa la notizia secondo cui l’algoritmo di Facebook ha cancellato un’immagine di una statua di Canova perché “nuda”. Immancabile il commento di Vittorio Sgarbi che ha dato della “capra” all’algoritmo. Ebbene, con il nostro post deve essere accaduta un po’ la stessa cosa: l’algoritmo deve aver individuato nell’immagine alcune parole sprezzanti scritte da Catullo – il carme era il n. XVI, per chi volesse andare a rileggerlo – e senza rendersi conto che si trattava di una poesia di uno dei più importanti autori della latinità, ha rimosso il post. 

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Vi racconto Pierluigi Cappello

di Maria Francesca Di Feo

Conobbi Pierluigi Cappello durante la quarta liceo, quando mi interessavo di poesia da alcuni anni: per il mio diciassettesimo compleanno un amico friulano mi regalò la silloge Mandate a dire all’imperatore, vincitrice del premio Viareggio-Repaci (2010). Mi stupì e commosse. Considerata da molti l’apice del suo percorso letterario, la raccolta mostra il cuore della poesia di Cappello, risonante saggezza disarmata e spoglia. La realtà fermata dai suoi versi rende il lettore parte di una comunità silenziosa, in cui ogni parola si configura come misurato incastro e faticosa conquista. Divorai quel libro più e più volte, fino a tenerlo sempre nello zaino o in borsa, al punto che è tuttora tra i miei più consumati. Trovai il coraggio di scrivere direttamente a Pierluigi qualche mese dopo, nel maggio del 2013. Fu quel mio stesso amico, che collaborava con un giornale locale, a fornirmi l’indirizzo di posta elettronica. Impiegai ore e ore a scrivere quella breve presentazione di me stessa, unita a un sentito e ossequioso ringraziamento per la sua opera: mi ero ormai convinta di scrivere a un gigante, a una delle persone più importanti nei miei neanche diciott’anni. Decisi anche di allegargli qualche mia poesia: già che c’ero, pensai, non avevo nulla da perdere. Pierluigi mi rispose in neanche due giorni, con una mail bellissima che iniziava così:

“Gentile Maria Francesca,

il suo entusiasmo merita una risposta. Sono felice che i miei versi possano parlarle e accompagnarla durante le sue giornate. Sono anche dell’idea che il merito non appartenga del tutto a me ma vada diviso equamente. Diciamo che un po’ del merito è mio e un poco è suo, perché ogni volta che lei legge un mio verso, lo fa rivivere con la sua sensibilità, con le sue esperienze di lettura fin qui accumulate, e con la percezione che lei stessa ha dell’esistenza e del mondo. Diciamo ancora che se i miei versi nascono da me, rinascono ogni volta in chi li legge e mi fa piacere che lei li abbia fatti nascere una volta di più.

Mi sento lieve quando ricevo mail come la sua, mi sento come se fossi riuscito ad assolvere un compito, come se il senso dello scrivere poesia in questa società di ferro mi venisse restituito con calore e in un colpo solo. Grazie.”

Concludeva annunciandomi che avrei potuto scrivergli, nonostante la valanga di posta che riceveva, e che avrebbe letto le mie poesie appena terminato un libro per Rizzoli (“Questa libertà”, edito nel settembre 2013) e dopo aver assolto agli impegni da giurato al Viareggio. Ci scambiammo alcuni altri messaggi per iniziare a conoscerci, fino a che nel periodo natalizio mi invitò a fargli visita a Tricesimo (in provincia di Udine).

PIERLUIGI ABITAVA…

Era una fredda mattina di fine dicembre; il 28, per la precisione. Pierluigi abitava in una piccola casa di legno, un prefabbricato costruito coi fondi dell’Unione Europea per la regione Friuli dopo il terremoto del ’76. Dal centro del paese vi si arrivava dopo un tratto di strada in salita, accanto al quale sorgevano poche altre case e una struttura residenziale per anziani. Era un posto incredibilmente tranquillo, dove si respirava l’aria dei colli in prossimità delle Alpi e della non distante frontiera. Della casa di Pierluigi mi catturò subito la scrivania ricolma di carte, e la libreria che sembrava abbracciare l’intera stanza d’ingresso, la quale fungeva anche da studio e da salotto. Non ricordo le parole precise con cui mi accolse, ma solo il suo sorriso discreto e luminoso, che immediatamente balenò e che ritornava ogni qualvolta la conversazione lo divertisse.

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Di Alda Merini o del corpo del canto

Pubblichiamo un articolo della nostra Mara Sabia, comparso anche nella rivista Sineresi, sulla poetica di Alda Merini. Sabato 27 e domenica 28 gennaio, le serate di lettura dalle opere della poetessa milanese, a Roma.

***

(…)
Quando gli amanti gemono
Sono i signori della terra
E sono vicini a Dio
Come i santi più ebbri.
(…)

– A. Merini, Quando gli innamorati si parlano.

 

Piccola ape furibonda, meretrice, santa, sanguinaria, solo una isterica, la pazza della porta accanto. Inutile e riduttivo tentare di definire Alda Merini, anche attraverso le sue stesse autobiografiche definizioni. Conviene piuttosto prendere atto delle infinite, singolari e contraddittorie caratteristiche del suo vissuto e del suo genio. Scrivere di Merini implica trattare l’incandescente materia manicomiale, fare i conti con il canto che sorge terribile e splendido in momenti di una speciale lucidità benché i fantasmi che recitano da protagonisti nel teatro della sua mente provengano spesso da luoghi frequentati durante la follia, come scrive Maria Corti. Una poesia, quella meriniana, in cui spesso bisogna discernere il fango dai diamanti, proprio perché nata in dette, eloquenti, condizioni e che sarebbe impossibile da leggere se fosse scissa dalla biografia della poetessa.

Una poesia difficile, contrariamente a quanto appare e che presenta caratteristiche specifiche e originali. Forse Rilke, o forse nessuno, costituisce, oltre alle matrici classiche, la tradizione a cui si rifà Merini. Una lirica metaforica, dal linguaggio contrastante, forbito e modesto, comune e spirituale, degno di messali, alle volte. Un canto che avvicina Dio e uomo in molteplici modi. Li mischia, li sovrappone, li confonde. Misticamente. Leggere Merini significa prepararsi al dualismo e al compenetrarsi di cielo e terra, di carne e spiritualità, di corpo e anima: probabilmente non vi è aspetto più interessante di questo nella poetica meriniana. Una voce potentemente ossimorica che trae il suo meglio dalla tensione dolorosa della eterna convivenza di angeli e demoni. Per dirlo con le parole di Merini: “solo angeli e demoni parlano la stessa lingua da sempre“. Puro corpo e puro spirito, quasi a ricalcare le Scritture, è il motivo dell’intera opera meriniana e delle figure che la compongono. Gli Amanti sono puro corpo e puro spirito: coloro che umani, terrestri, gemono e contemporaneamente, in tale linguaggio, sono vicini a Dio come i santi più ebbri. Sono puro corpo e puro spirito i matti dipinti nelle pagine del capolavoro la Terra Santa in cui sono profeti, mistici, angeli, santi. Puro corpo e puro spirito sono i poeti, i medici, gli amici della poetessa ritratti in versi. Ella stessa e il suo canto sono pura carne e puro spirito. E allora “corpo” è parola amata e ricorrente. È scelta emblematica nel titolo del testo “Corpo d’amore. Un incontro con Gesù”. Quel Gesù che è pietra, carne e spirito, che da solo si annienta nei sensi e nello spirito per una prova d’amore. Il “corpo” meriniano non è mero un contenitore per l’anima o un mezzo per la poesia, ma è un modo, un mistero meraviglioso, una domanda sconvolta, è la poesia stessa. Scrive Merini: Gli inguini sono tormento/sono poesia e paranoia/delirio di uomini. /Perdersi nella giungla dei sensi, /asfaltare l’anima di veleno,/ma dagli inguini può germogliare Dio. Il corpo qui è poesia, paranoia, perdita, ma anche porta sul divino. Il corpo cantato da Merini è spesso esaltato alla maniera biblica, chiari, ad esempio, sono i riferimenti al Cantico dei cantici: Forse tu hai dentro il tuo corpo/Un seme di grande ragione – scrive Alda Merini nel suo Canto dello sposo, concludendo sfinita di passione – eppure in me è la sorpresa/di averti accanto a morire/dopo che un fiume di vita/ ti ha spinto fino all’argine pieno.

Nella complessità del tema della carne e del corpo in Alda Merini, emergono altri connotati, come ad esempio la bellezza. Bellezza, per la poetessa è ciò che salva l’atto carnale dalla miseria, così come la nudità è salvata dal disgusto, dal pudore. Il corpo senza trascendenza nell’altro non è altro che il ludibrio grigio nominato ne La Terra Santa. In questa ottica anche l’eros si trasforma in arte, in poesia. Gianfranco Ravasi la descrive come capace di intrecciare eros e agape, carne e anima, desiderio e fede: come il peccato cede e travolge la fede stessa/fino a diventare a sua volta/il ritmo stesso della fede. Come il peccato è arte/ e come l’arte è il peccato.

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