la setta dei poeti estinti

Senza vergogna non c’è letteratura

Scrivendo Annie Ernaux compie un gesto etico: «L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla» afferma, riversando di proposito sui lettori una scarica di empatia. Svelando segreti, pronunciando l’innominabile, riesce ad abbattere una barriera, inaugurando una nuova forma di autobiografia non più individuale, ma sociologica.
Si tratta di una forma peculiare di letteratura di introspezione, che trae origine da una ferita. Appare evidente in questo senso il legame con Paul Auster, a cui Ernaux è senz’altro debitrice, citato in esergo «Il linguaggio non è la verità. È il nostro modo di esistere nel mondo». Allo stesso modo l’autrice francese concepisce il proprio discorso letterario, nella prospettiva postmoderna della relazione tra linguaggio e realtà.
Non conta più la narrazione di una storia, piuttosto l’analisi di un sentimento, di uno specifico stato d’animo; una certa percezione della vita e del mondo che circonda l’essere umano. È con questa consapevolezza che ci si deve accostare alla scrittura di Annie Ernaux: spesso è impietosa, trafigge come un coltello, tuttavia ha l’innata capacità di purificare lo sguardo e ampliare il pensiero di chi legge. Lorenzo Flabbi, traduttore ed editore dell’opera dell’autrice francese in Italia, ha affermato: «Tradurre Annie Ernaux mi rende una persona migliore», ebbene, in qualità di lettori, non si può far altro che dargli ragione.
La vergogna è un tema ricorrente nelle opere di Annie Ernaux. Se ne trova la più compiuta rappresentazione nel romanzo La Honte, pubblicato da Gallimard nel febbraio 1997 e apparso per la prima volta in Italia nel 1999, edito da Rizzoli, con una traduzione di Orietta Orel. Il libro è recentemente tornato sugli scaffali delle nostre librerie in una nuova traduzione di Lorenzo Flabbi con un titolo più aderente e incisivo: La vergogna.
In una copertina rosso scuro corredata dalle note sagome che accompagnano tutti i libri dell’autrice pubblicati da L’Orma editore, La vergogna sembra aggiungere il tassello mancante all’autobiografia letteraria di Annie Ernaux che i lettori italiani hanno scoperto soltanto in tempi recenti. Vent’anni dopo la prima pubblicazione, il libro conserva tutta la sua freschezza, e soprattutto l’immediatezza della narrazione.
Schietto, crudo, senza fronzoli, estremamente vero fin da quella primissima frase; un incipit diretto, drammatico, sconcertante: «Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio».
È il racconto di un trauma, rivelato come un segreto, che Annie Ernaux afferma di aver confessato solo «a pochi uomini nella sua vita»; e viene ora, attraverso l’artificio della scrittura, reso pubblico.
L’autrice resuscita la bambina che è stata, facendo rivivere i suoi sentimenti, mostrando la progressiva corruzione della sua innocenza. Inizia così una ricerca tra gli archivi e le memorie dell’epoca nel tentativo di far rivivere i luoghi e le atmosfere di quell’anno capitale della sua esistenza, il 1952, che segna per lei uno spartiacque, l’ultima data certa della sua infanzia.
Per la prima volta Ernaux si definisce «etnologa di sé stessa» e rivela, in costante dialogo con il lettore, la ferita alla base della sua scrittura: «La mia convinzione che fosse proprio quell’episodio che mi spingeva a scrivere, che sia proprio esso alla base dei miei libri». La narrazione è infatti intermezzata da continui riferimenti metatestuali, come se la messa per iscritto conferisse un’identità altra al testo, lo riversasse sugli altri rendendo così quanto accaduto meno personale.

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Joan Didion, la scrittura come sortilegio

Leggere Joan Didion è come un incontro. La sua voce ti artiglia alla pagina fin dalle prime righe e capisci che non si tratta di un libro come gli altri: non è una storia che ti viene raccontata; ma una persona che ti sta parlando e si rivolge a te, proprio a te, trasformando la lettura in una conversazione a quattr’occhi. In breve tempo capisci che non stai leggendo Joan Didion; stai conoscendo Joan Didion. Ciò che l’ha resa una delle maggiori personalità letterarie viventi è subito chiaro: lei è ciò che scrive; i suoi libri contengono la sua voce, che non è uguale a nessun’altra. Dopo aver letto un suo romanzo sarà sufficiente imbattersi in un incipit, una breve frase, per comprendere che chi ti sta parlando è la Didion. Alla stregua di una registrazione su nastro, la sua scrittura la identifica come un’impronta digitale, contiene la sua essenza, il suo DNA, in una specie di formidabile miracolo letterario.
La voce della Didion è dirompente, sembra fuoriuscire dalla pagina: a tratti grida, piange, trasborda dalle indicazioni di punteggiatura e si snoda in una serie di interrogativi all’apparenza senza risposta.
Nel suo stile di scrittura è contenuta la stessa incisività che traspare da quegli occhi: grandi, espressivi, che in ogni fotografia sembrano forare l’obiettivo e incidersi in quelli dell’osservatore. Appaiono in ogni dove immagini di lei, giovane e invincibile, con gli occhiali da sole neri e lunghi abiti bianchi mentre passeggia per le strade californiane. Una giornalista, una sceneggiatrice, un’intellettuale: vive delle parole che scrive e abita bene il suo personaggio.

L’America ormai la celebra come l’ultima celebrità letteraria, santificandola in vita con onori e tributi, addirittura con una copertina di Céline che la ritrae a ottantuno anni come se fosse la modella del momento. Nel 2012 il Presidente Barack Obama le ha conferito la National Medal of Arts per il suo apporto straordinario alla letteratura. La cerimonia appare fredda e, allo stesso tempo, commuovente. Obama sorride sfolgorante e a un certo punto appare questa donna piccola, esile, tremante, che gli si avvicina a capo chino. Lui le ripone la medaglia al collo con un gesto solenne, le stringe la mano; mentre il pubblico sembra tenere il fiato sospeso. Lei non sorride. Non ringrazia. Sembra piegarsi sotto il peso degli applausi scroscianti; non si sa se per l’imbarazzo o per l’emozione. Oggi Joan Didion è una anziana signora dalla voce esile e il volto solcato da rughe, ma dotata di una carisma straordinario: i suoi occhi forano ancora l’obbiettivo, mentre afferma il suo personale comandamento: «See enough and write it down, I tell myself.»

Ci ha regalato il fascino di una parola eterna, perché viva: è una donna in cui si incarna il dovere morale della scrittura. Per lei le parole hanno rappresentato l’ultimo esile legame con la vita quando tutto sembrava perduto: ce lo rivela il suo capolavoro The Year of Magical Thinking, finalista al Premio Pulitzer nel 2005. Con questo libro la Didion rivela una versione inedita di se stessa: non è più la giornalista in prima linea, la narratrice implacabile delle contraddizioni dell’America moderna, ma semplicemente una donna che mette a nudo il suo dolore, senza difese. L’anno del pensiero magico, pubblicato in Italia dal Saggiatore nel 2006, è un grido aperto contro l’irrazionalità del dolore e inaugura una nuova fase letteraria nella vita dell’autrice. Per la prima volta Joan non usa le parole per combattere il mondo esterno a colpi di accuse e denunce, ma le rivolge impietosamente contro se stessa, scavando nel proprio mondo interiore, nel tentativo di comprendere le ragioni oscure della perdita.

La vita cambia in fretta.
La vita cambia in un istante.
Una sera ti metti a tavola
e la vita che conoscevi è finita.
Il problema dell’autocommiserazione.

L’anno del pensiero magico si apre con queste precise parole, scandite con un ritmo implacabile. All’apparenza illustra una banalità, eppure questo libro riesce a raccontare l’inenarrabile. La sera del 30 dicembre 2003 John Gregory Dunne, scrittore e marito di Joan Didion da oltre quarant’anni, si accascia colpito da un infarto fulminante. I due erano appena usciti dal reparto di terapia intensiva Beth Israel North, dove la loro unica figlia, Quintana, era ricoverata da cinque giorni a causa di una polmonite sfociata in shock settico. In breve tempo Joan deve fare i conti con la morte del marito e con la malattia incurabile della figlia, che si spegnerà a soli trentotto anni, poco tempo dopo la conclusione del romanzo.

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“Le Assaggiatrici” di Rosella Postorino, il nostro incontro con il Campiello 2018

Quando l’ho incontrata, Rosella Postorino mi ha dato un consiglio: «Per scrivere bene non basta leggere molto. Nella scrittura devi mettere tutto: non solo i libri che hai letto, ma anche i film che hai visto, la musica che ascolti, il sapore della torta al cioccolato che hai mangiato a colazione e la brezza del vento d’estate. Tutto quello che ti ha fatto emozionare, piangere, gridare, deve confluire nella scrittura».

Credo che siano stati proprio questi ingredienti, o meglio la loro combinazione, a rendere Le Assaggiatrici un romanzo esplosivo, capace di tenere il lettore incollato alla storia dalla prima all’ultima pagina.

Il 15 settembre 2018 Le Assaggiatrici ha vinto la 56esima edizione del Premio Campiello con 167 voti, un record. Il romanzo era stato pubblicato da Feltrinelli editore nel mese di gennaio, ottenendo subito uno stupefacente e immediato successo di pubblico: a febbraio il libro era infatti già alla sua quarta edizione.

L’idea per la scrittura di questa storia, racconta Rosella Postorino nella postfazione, è nata dalla lettura di un articolo di giornale che narrava la vera vicenda di Margot Wölk, assaggiatrice di Hitler, che all’età di novantasei anni decide infine di raccontare la sua esperienza e renderla pubblica. Margot, pur proclamandosi apertamente non nazista, disse di essersi ritrovata costretta a rischiare la propria vita per tutelare quella del Führer diventando in questo modo complice, suo malgrado, della peggiore dittatura del secolo scorso. Colpita dall’accaduto, Rosella si mette subito a fare della ricerche ma, quando cerca di contattare la Wölk, scopre che nel frattempo la donna è deceduta.

La storia, tuttavia, ha ormai preso forma nella sua mente e chiede di essere raccontata: emerge così il personaggio di finzione di Rosa Sauer, giovane donna che vede la sua esistenza sconvolta dagli avvenimenti della seconda guerra mondiale e cerca di sopravvivere in una nazione avvilita che si trascina inesorabilmente verso un’ormai prevedibile sconfitta. Ex segretaria costretta a fuggire da Berlino dove viveva con il marito ora chiamato alle armi, Rosa si trasferisce in Polonia nella casa dei suoceri, nel villaggio di Gross Partsc. La sua vita trascorre nell’attesa estenuante del ritorno di Gregor. Inoltre ogni mattina Rosa è caricata sul pulmino delle SS insieme ad altre dodici donne, la direzione è Krausendorf, la caserma adiacente alla Tana del lupo, quartier generale di Hitler. Qui, attorno a un tavolo, le donne sono intrappolate come topi in gabbia, con un unico scopo: assaggiare il pasto del Fuhrer. Si rivela subito il grande dilemma etico contenuto nel libro: «Fino a quale limite ci si può spingere pur di sopravvivere?». Assistiamo al dramma di esseri umani affamati, portati allo stremo dalla guerra, cui viene servito un pranzo succulento e invitante che però potrebbe nascondere segretamente il boccone avvelenato. Attorno alla tavolata si mescolano così paura e istinto di sopravvivenza e gli oscuri sensi di colpa di giovani madri che vorrebbero sfamare i propri figli anziché riempirsi lo stomaco con il cibo destinato a un criminale di guerra. Ogni boccone potrebbe essere l’ultimo. Sedute al loro posto, armate unicamente di forchetta e coltello, le donne affrontano la loro personale battaglia con coraggio, eppure con la tacita consapevolezza di non poter, in ogni caso, morire da eroi.

Le assaggiatrici sono dodici e diversissime tra loro: c’è l’enigmatica e scostante Elfriede; la timida e ingenua Leni; la bella Ulla, simile a un’attrice del cinema e poi Beate, Heike.  Non si trovano lì per loro volontà, o perlomeno, non tutte: tra loro ci sono anche Le Invasate, Augustine, Theodora, Sabine e Gertrude, così soprannominate perché al contrario delle altre si dichiarano orgogliose di rischiare la propria vita per la salvezza del dittatore tedesco.

Ogni donna custodisce in privato un segreto: una pena d’amore, una gravidanza illegittima, oppure, nel caso di Elfriede, qualcosa di molto più grave e inconfessabile. Il racconto è intervallato da frequenti flashback che raccontano la vita di Rosa prima della guerra: ricordi indelebili che le offrono conforto nei momenti bui, le carezze amorevoli della madre, i pomeriggi spensierati trascorsi in compagnia di Gregor.

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La bella estate. O l’ultimo bagliore della giovinezza

Un romanzo che dovrebbe partire dalla conclusione, che per l’appunto sembra suggerire un nuovo inizio. La bella estate è uno di quei libri che spingono il lettore ad andare oltre il punto, a non rassegnarsi alla fine della storia e proprio per questa ragione si imprimono nella memoria indelebili insieme al carico di domande, dubbi, interrogativi che hanno suscitato durante la lettura.

Forse è questo il lascito più grande della letteratura: la possibilità dei libri si ispirare riflessioni profonde, in grado di connettere intimamente la vita alle pagine scritte. In fondo è la ragione per cui si legge, nella speranza che un libro continui a parlarci anche una volta dopo averlo terminato.

Con La bella estate non può accadere che questo, persino nel suo romanzo ingiustamente meno celebre Pavese rivela le sue doti indiscutibili di grande narratore creando personaggi vivi, contraddittori e dolorosamente veri.

Con questo libro Pavese si aggiudicò il premio Strega nel 1950, tuttavia l’opera fu a lungo svalutata dalla critica e ancora non è ritenuta un vero e proprio classico.

Scritto nel 1940, il testo integrale comparve solo nove anni dopo nel trittico omonimo composto inoltre da Il diavolo sulle colline e Tra donne sole.

Il racconto che dà il titolo alla silloge, La bella estate, ora pubblicato da Einaudi in edizione singola, è di certo il più significativo. Associato al periodo naturalista dell’autore, La bella estate è la storia di Ginia e del suo ingresso nell’età adulta. L’inizio della sua maturazione come donna. Attraverso una vicenda apparentemente semplice e lineare l’autore tratteggia una riflessione profonda sulla vita e la giovinezza che si apre a diverse interpretazioni. Letto ai giorni nostri questo libro appare estremamente moderno per la storia e le tematiche affrontate. È sorprendente scoprire come Pavese riesca a parlare di una donna malata di sifilide nei reticenti Anni Quaranta. In queste pagine, soprattutto, si può leggere in filigrana un elogio alla libertà, al suo potere travolgente e talvolta spaventoso.

L’incipit non lascia affatto indifferenti, in poche righe Pavese riesce a tratteggiare non solo una stagione, ma l’incredibile senso di euforia e di attesa che accompagna certi istanti dell’esistenza. L’estate irripetibile della giovinezza viene associata a una festa, a una frenesia irrefrenabile, a un’avidità di vita:

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada per diventare come matte, e tutto era così bello specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano che ancora qualcosa succedesse.

Inutile dire che l’estate di Pavese è tutt’altro che bella, sull’intera narrazione aleggia un’atmosfera malinconica che nel finale prenderà il sopravvento. La “bella estate” del titolo infatti non rappresenta solamente una stagione, ma uno stato d’animo: l’estate è nel cuore di Ginia, ma sarà presto destinata a spegnersi come un fuoco fatuo, a trascorrere come ogni stagione della vita. Dell’entusiasmo e della curiosità della protagonista rimarrà alla fine un senso di disperata solitudine.

L’autore ha descritto questo libro con una frase incisiva: «La storia di una verginità che si difende». La bella estate è l’espressione più pura della giovinezza, colta nel suo momento di massimo splendore.

Nella nuova veste grafica di Einaudi in copertina sono ritratte due donne, il particolare è tratto dal quadro di Gerda Roosval- Kallstenius Evening Sun and Sun Reflections. Sono una signorina borghese e una cameriera, si trovano in un interno, dove una è in atto di vestire l’altra. Proprio attorno a due donne ruota il perno centrale della narrazione: Gina e Amelia così sono diverse e tuttavia complementari. L’una giovane e inesperta, l’altra smaliziata e sensuale: dotate entrambe di personalità molto forti pur nelle loro differenze.

Il romanzo stesso potrebbe essere visto come un “processo di vestizione”, non è certamente un caso che Ginia alla fine della storia si scopra nuda e cerchi di coprirsi. Sarà proprio l’incontro tra l’ingenua Ginia e l’enigmatica Amelia, che posa come modista per i pittori, a dare avvio alla storia. Questa donna ambigua e misteriosa, un personaggio carismatico e perfettamente costruito, scandirà il ritmo della narrazione con le sue assenze e gli altrettanto improvvisi ritorni.

Attraverso Amelia, Ginia scopre un modo sconosciuto, la Torino bohémienne e tumultuosa dei caffè e degli artisti. Al di là dei confini limitati dell’universo operaio, dedito a un lavoro alienante, la protagonista viene a contatto con l’esistenza vivace e frizzante di Guido, pittore e soldato, e  del suo compagno di avventure Rodrigues. Affascinata dalle doti artistiche e dai capelli biondi di Guido, Ginia se ne innamora e dopo molte reticenze finirà per concedersi totalmente a lui. Il sentimento di Ginia è tenero e delicato e viene descritto da Pavese con un’intensità unica; è davvero impressionante la capacità dell’autore di calarsi nei panni e nelle sensazioni di una ragazza.  

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“Un uomo che legge ne vale due”, la libreria della Rue Charras di Kaouther Adimi

Kaouther Adimi giovane vincitrice del Premio Goncourt confessa di aver iniziato a scrivere da bambina perché non aveva libri da leggere. Autrice algerina-francofona ha trent’anni ma sembra poco più di una ragazzina, mentre con voce bassa e pacata racconta la trama del suo ultimo libro La libreria della Rue Charras (L’Orma editore), vero e proprio caso letterario in Francia. Solo in apparenza la storia romanzata di un editore, in realtà questo romanzo tra le righe nasconde ben altro: uno scontro culturale che si riflette appieno nell’attualità del nostro presente. Adimi mette in luce con una narrazione semplice e scorrevole il problema dell’Algeria, la sua identità francofona che rende il Paese un incrocio di culture tra l’Europa e l’Africa.

«Non siamo noi ad abitare i luoghi, ma sono i luoghi ad abitare noi», afferma malinconicamente uno dei protagonisti di La libreria della Rue Charras alla fine del libro. Rimane un ultimo testimone, Abdallah, a fare da custode a Nos Richesses quel patrimonio inestimabile di libri e valori che hanno fondato un’intera esistenza sull’idea che, per l’appunto, le vere ricchezze della vita siano quelle testuali, interiori.
Abdallah sosta davanti alla libreria con un telo bianco posato sulle spalle come un sudario, gli occhi neri, talmente scuri che non si riesce a vederne neanche l’iride. Sembra il fantasma di un tempo ormai scomparso, riunisce nella sua persona due binari temporali: passato e presente che tengono le fila della narrazione.

Nel 1936 al due bis della Rue Charras apre le Éditions Charlot. Viene mostrato al lettore dapprima il fermento di un luogo che diventa veicolo di cultura, poi una vetrina opaca, una stanza polverosa che attende di essere sgomberata, ormai ridotta a reperto archeologico di un’altra epoca. In Algeria il ventenne Edmond Charlot, studente difficile e con la testa tra le nuvole, rinuncia all’università per dedicarsi anima e corpo all’impresa di fondare una libreria-casa editrice, incoraggiato dal suo insegnante di filosofia. Scrive sul suo diario il 5 maggio 1936: «Sarà una biblioteca, una libreria, una casa editrice, ma sarà innanzitutto un luogo per gli amici che amano la letteratura e il Mediterraneo».
Quasi un secolo dopo a Parigi, Ryad, studente di ingegneria, cerca disperatamente un’attività da svolgere come tirocinio curricolare. Il caso lo riporterà in Algeria, suo paese natale, incaricandolo di un compito ingrato: sgomberare la libreria di Rue Charras e ritinteggiarla per dare spazio a un nuovo locale, una pasticceria. Nello stesso luogo in cui uno studente si era battuto per amore dei libri, un altro “guarda quei caratteri neri stampati sulla carta e tutto ciò a cui pensa sono gli acari.” (p.76) Costruzione e distruzione della libreria si alternano nel romanzo con un ritmo avvincente in una narrazione ricca di personaggi divertenti e indimenticabili, pervasa dal fascino esotico di un paesaggio dalle mille sfumature di colori e misteri.

Kaouther Adimi ci conduce per mano per le viuzze di una città immaginifica baciata dal sole, facendoci vivere le sue atmosfere e incontrare la sua gente: «Ad Algeri non ci sarà mai un’alba senza una baruffa di gatti» (p.48). Si sente l’azzurro del cielo sulla testa e le piogge improvvise; si assiste all’esordio di scrittori del calibro di Albert Camus e alla tragica fine di Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Il Piccolo Principe, precipitato a bordo del suo velivolo. È la storia di un amore illimitato per la letteratura, capace di sopravvivere alla censura, alle restrizioni imposte dalla guerra che si rivelano nel dramma di “trovare la carta” per continuare le pubblicazioni. Tra attimi di esaltazione, successi e devastazioni, non mancano neppure i momenti di scoramento, riflessi nelle memorie di Charlot: «L’editoria ha condizionato la mia intera esistenza, finirà per portarmi via moglie e figli». (p. 130)

La Libreria della Rue Charras è un libro particolare proprio per l’alternanza di punti di vista che si trova al suo interno, che non frammentano la lettura, al contrario la rendono più avvincente: dalla terza persona singolare alla prima persona plurale, il tutto arricchito dalla narrazione diaristica attraverso l’espediente del fantomatico taccuino di Edmond Charlot.

Nella parte centrale del romanzo rivive anche una pagina inedita di storia: il massacro di centinaia di algerini avvenuto a Parigi il 17 ottobre 1961, un fatto tuttora considerato un “non avvenimento” e non riconosciuto dallo stato francese. Una piaga ancora aperta che viene affrontata in questo libro con un lucidità senza precedenti. Adimi spiazza il lettore adottando in questa descrizione il punto di vista dei francesi. Una prima persona plurale che improvvisamente passa dalla parte del nemico abbracciando il suo sguardo. Una scelta stilistica sorprendente in grado di aggiungere un carico di violenza, di ferocia inaudita alla scrittura, che d’un tratto prende un ritmo vorticoso, una parola dopo l’altra, delineando un’escalation di aggressività e orrore.
Nei libri di storia dei licei francesi il riferimento al massacro occupa poche righe, qui vengono dedicate all’avvenimento parecchie pagine e il tutto viene ricollegato al presente in modo drammatico, lasciando intuire la ferita di una memoria ancora sanguinante.
Un uomo che legge ne vale due”, recita così l’insegna della libreria Nos Richesses. Una scritta duplice, in francese e in arabo, ribadisce la volontà di creare un ponte d’unione tra le due culture.
Tra le pareti di questa stanzetta angusta e polverosa passa la storia del mondo, di intere generazioni. Il progetto di Edmond Charlot dà vita a un ideale di letteratura cosmopolita, senza distinzioni di lingua, nazionalità o religione.
Un messaggio forte che trapela tra le righe e commuove è il potere salvifico dei libri, che risiede nella loro capacità di rivoluzionare le esistenze. Libri che vengono rilegati, stampati, curati nel dettaglio della stampa e delle copertine. Libri spesso offerti in dono, libri che salvano.

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Scrivo di mia madre per metterla al mondo – “Una donna” di Annie Ernaux

«Io credo che, in qualche modo, il mio desiderio di scrivere derivi dal desiderio di mia madre. Mia madre aveva una grande ammirazione per i libri, per gli scrittori. Lei ha avuto un’influenza straordinaria su di me». Con questo delicato e toccante ricordo, Annie Ernaux  risponde a una delle domande di Claire-Lise Tondeur sulle cause che l’hanno spinta alla scrittura, in un’intervista del luglio 1993.

Al di là del talento individuale, tutto viene dunque ricondotto all’immagine di quella donna poco istruita, lavoratrice instancabile che, di tanto in tanto, vedendo la figlia leggere, sospirava: «Ah, se fossi stata capace di farlo mi sarebbe piaciuto scrivere un romanzo».

Un romanzo quella donna non l’ha scritto, ma qualcun altro l’ha fatto per lei: raccontando, con minuzia di particolari, la sua esistenza quasi allo scopo di consegnarle nuovamente la vita. All’origine di questo libro si trova un significato quasi religioso; si potrebbe definire un tentativo di resurrezione.

A questo proposito è di forte impatto emotivo il passaggio di testimone da madre a figlia, quando l’autrice annuncia la sua nascita al futuro e, subito dopo, in un geniale salto temporale recupera le fila della narrazione al presente: «All’inizio del 1940 aspetta un altro figlio. Nascerò in settembre. Ora mi sembra di scrivere su mia madre per, a mia volta, metterla al mondo». ( p.40) Non si tratta di un ritratto angelico, al contrario, tanto umano da risultare quasi diabolico, lo rivelano le prime frasi: «Era violenta»  e ancora «Era una donna che bruciava tutto».

Sempre nell’intervista del 1993, Ernaux afferma: «Un progetto materno terribile ha pesato su di me». L’aspetto “terribile” consiste nella volontà materna di consentire alla figlia di compiere il cosiddetto “balzo sociale” permettendole così di liberarsi da una condizione subalterna attraverso l’istruzione: «elevarsi per lei significava soprattutto imparare.» La vicinanza tra i due mondi, rurale-operaio e borghese, posti spesso in opposizione, sarà uno dei temi più ricorrenti nella scrittura della Ernaux, e in particolare all’origine di quel particolare sentimento di “vergogna sociale” che l’ha perseguitata per tutta la vita: la vergogna per le proprie origini e, allo stesso tempo, l’inestinguibile senso di colpa dettato da questa vergogna. Una frase, soprattutto, esemplifica l’ambiguità di questo conflitto: In certi momenti aveva in sua figlia, di fronte a lei, un nemico di classe.     

Ѐ quasi commuovente il valore incommensurabile attribuito alla cultura da parte di una donna che gestiva un bar-drogheria in un piccolo paesino della Senna Marittima; una commerciante che nella vita di tutti i giorni doveva preoccuparsi di faccende ben più materiali e urgenti, come far tornare i conti, gestire i clienti, tirare avanti l’attività per sfamare la famiglia.  «I libri erano gli unici oggetti che lei maneggiava con attenzione e precauzione. Si puliva sempre le mani, prima di toccarli».

Annie Ernaux, quattro anni dopo Il Posto  (l’opera sulla vita del padre che l’ha consacrata al giudizio della critica) nel 1987, a seguito della morte della madre, scrisse questo libro, avvalendosi ancora una volta di uno stile affilato, scarno, che procede per paragrafi brevi, elenchi, ripetizioni. Une femme, per l’appunto. Il romanzo fu pubblicato dall’editore Gallimard nel 1988, apparve per la prima volta in Italia presso Guanda nello stesso anno con il titolo “Una vita di donna”. A quasi trent’anni di distanza, L’Orma editore ce ne riconsegna l’edizione italiana con una traduzione di Lorenzo Flabbi, vincitore del Premio Stendhal per Memoria di ragazza, precedente libro della Ernaux pubblicato nell’aprile 2017.

Una donna. Ѐ bene sottolineare la rilevanza dell’articolo indeterminativo nel titolo, rivela l’intenzione di voler racchiudere in sé un’esperienza universale che trascende il significato della vita individuale. All’intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia, secondo la volontà dell’autrice che ha coniato questo nuovo genere letterario definibile come “Autobiografia impersonale”, in cui il punto di vista mantiene sempre una certa distanza oggettivante dai fatti narrati, senza indugiare nel lirismo né nell’introspezione. Una ricostruzione accurata che non si adagia nel patetismo del ricordo o delle descrizioni minuziose.

Più che una narratrice, un’archivista, come lei stessa si definisce: «Questo sapere trasmesso per secoli da madre in figlia si ferma a me, che ormai ne sono soltanto l’archivista».

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Revolutionary Road, il dramma moderno di un amore perfetto

«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». L’incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj sembra sintetizzare alla perfezione la trama del romanzo di Richard Yates, Revolutionary Road.

Definito dalla critica “una tragedia contemporanea”, il libro di Yates ritrae un matrimonio sull’orlo dell’abisso: attraverso il lento declino di una coppia della middle-class americana degli anni ’50 viene messa in luce, innanzitutto, la crisi dell’individuo che ha perduto i propri punti di riferimento. Frank e April Wheeler possiedono, in apparenza, tutto quanto potrebbero desiderare: sono una coppia giovane e di bell’aspetto, con due bambini biondi e vivaci, vivono in una bella casa dotata di ogni comfort nel quartiere residenziale di Revolutionary Hill, nei sobborghi di New York.

Il circondario di Revolutionary Road, scrive Yates, non è stato progettato in funzione di una tragedia: le staccionate sono accuratamente dipinte di bianco, i prati puliti e tagliati di fresco. La sera le luci si accendono all’interno di tutte le case lasciando fuori l’oscurità e ogni incertezza. Nelle pagine finali della storia, Yates dirà: «Un uomo intento a percorrere di corsa queste strade, oppresso da un disperato dolore, era fuori posto in modo addirittura indecente». Ma il presagio della fine è avvertibile fin dal principio: l’ambientazione da fiaba, dalle tinte color pastello, che fa da sfondo alle vite dei due protagonisti talvolta appare come un gigantesco castello di carte destinato a ripiegarsi su se stesso; quella stessa casa sulla collina che dovrebbe costituire il rifugio da tutti i mali è in realtà una trappola, un inferno privato creato dalle stesse persone che lo abitano. Ben presto il lettore viene invitato a vedere oltre la superficie, scoprendo così quali drammi personali agitano gli abitanti di Revolutionary Road. La vita dei Wheeler non è affatto come sembra: non sono una famiglia felice, ma una coppia in perenne stato di tensione, insoddisfatta, che riesce solo a rinfacciarsi ambizioni frustrate, nella nostalgica commemorazione di una giovinezza dove tutto era ancora possibile. Delusi dalla loro esistenza, ma ancor più da loro stessi, marito e moglie vivono la loro realtà, la vita familiare, quasi si trattasse di una trappola e sognano di evadere progettando un viaggio-fuga a Parigi, per sfuggire alla quotidianità soffocante, alle ipocrisie, all’educato gioco di finzioni che li circonda. In entrambi i protagonisti si avverte il desiderio di fuggire da una vita che non hanno scelto, e in cui si sentono intrappolati senza scampo. Le pagine del romanzo ci rivelano, con un sapiente uso dei flashback, l’amara verità di una famiglia nata quasi per necessità, in seguito alla notizia inaspettata dell’arrivo del primo figlio. Dopo sette anni, il matrimonio sembra essere giunto al capolinea e il libro si apre in medias res mostrandoci due persone incapaci di capirsi e di comunicare, se non tramite litigi furibondi.

Il viaggio alla volta di Parigi, fantasticato da April, è la metafora del desiderio, di una felicità ancora possibile. Visti da vicino, i personaggi di Yates sono “squallidi”, infelici, raramente possiedono delle caratteristiche positive. E, soprattutto, vivono in una condizione di solitudine senza scampo; quel nuovo genere di solitudine tipica del XX secolo, a cui solo un narratore come Yates può dare voce,  la si potrebbe definire “solitudine dell’incomunicabilità”.

Frank Wheeler trascorre le sue giornate al quindicesimo piano del Knox Building Center, facendo quello che lui stesso definisce “il lavoro più cretino del mondo,” nel mentre intrattiene una relazione clandestina con una collega dell’ufficio per non lasciarsi annientare dalla noia. Tutte le persone che circondano Frank e April sono insoddisfatte per qualche ragione, oppure nascondono un’infelicità segreta: lo sono i loro amici più intimi, i Cambpell, famiglia numerosa che si è trasferita dall’assolata California alla ricerca di una vita diversa; lo sono anche Helen e Howard Givings, in apparenza un’amabile coppia di pensionati, che nasconde un figlio schizofrenico in una casa di cura; lo sono persino i colleghi di Frank, come Jack Ordway, sposato con un’ereditiera non più giovane che ha ormai dilapidato tutti i suoi averi.

Queste sono le vite che scorrono oltre le bianche staccionate di Revolutionary Road e che hanno fatto del libro di Yates un capolavoro senza tempo. Siamo nell’America post seconda guerra mondiale, negli anni del Boom economico, in un’epoca che punta tutto sui bisogni del consumatore e quindi dell’individuo: un mondo che sembra rivolto soltanto al benessere, alla realizzazione dei sogni, ma che poi ne chiede il conto.  Yates mostra nei suoi racconti il lato oscuro delle disillusioni, spingendo il lettore fino al punto più profondo dell’abisso, senza temere l’effetto disturbante di un finale tragico. Perché una volta crollato il miraggio della partenza per Parigi, il lettore lo sa, ogni lieto fine è perduto. La conclusione del romanzo appare inevitabile. La morte, per April, rappresenta l’estremo atto di evasione, diventa metafora di quella fuga premeditata che lei cerca di architettare ossessivamente per tutto l’arco della storia.

Un grande merito di Richard Yates come narratore è che, continuando ad alternare il punto di vista, riesce a mantenere la neutralità assoluta tra le ragioni e i torti di ciascun personaggio. Non fa da arbitro, non giudica mai.

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“Materia prima”, il romanzo di Jörg Fauser sulla “sete” di senso e di vita

È considerato uno dei capisaldi della controcultura tedesca, di quella vena undergorund a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta nella Germania del Muro di Berlino, eppure in Italia è arrivato solo nel 2017.  “Materia prima” (“Rohstoff“, in tedesco), romanzo scritto nel 1984 da Jörg Fauser e tradotto da Daria Biagi, è stato pubblicato nel nostro Paese per i tipi L’Orma editore, una casa editrice che sta traducendo e mandando in stampa piccole e grandi rarità della letteratura francese e tedesca.

“Materia prima” ripercorre per molti aspetti proprio le vicende biografiche di Fauser, scrittore “più noto nell’ambiente delle forze dell’ordine che non nei circoli letterari“, come sottolinea Daria Biagi nella postfazione. Il protagonista del romanzo si chiama Harry Gelb, studente alla soglia dei trent’anni, preso nel gorgo delle droghe ma ossessionato dal dover “combinare qualcosa nella vita“, vero e proprio mantra di una generazione. Pena il fallimento.

A diciotto anni, dopo due fugaci infatuazioni per la politica e per la religione, mi era già chiaro che fare lo scrittore sarebbe stato per me l’unico modo di scrollarmi di dosso l’apatia, e magari addirittura di combinare qualcosa nella vita.

Ed è in questa continua ricerca di un equilibrio interiore ma anche “esteriore” che Gelb passa da un lavoro a un altro, da una donna a un’altra – sempre portandosi dietro una macchina da scrivere o un taccuino e il manoscritto di un romanzo che in tutti i modi cerca di far pubblicare: “Stamboul Blues“. Quella di Gelb in realtà è una tremenda “sete” di vita, di significato, di materia prima – appunto – di sostanze, siano queste droghe o esperienze. Gelb si trova infatti più a suo agio nelle bettole che non negli uffici della Bundesbank, dove pure capiterà – salvo fuggirne poco dopo. Nei bassifondi piuttosto che negli ambienti borghesi. In tutti quei luoghi e quelle circostanze in cui l’uomo rivela se stesso senza schemi.

Lo Schmales era qualcosa di più che un posto dove farsi una birra, l’osteriaccia o il baretto evocati in mille canzoni. Lo Schmales era il rifugio di cui molti avevano bisogno nel bel mezzo del proprio Paese, il porto franco in cui potevano venire a patti con i proprio sogni, una casa per la quale non c’era bisogno di mutui, di garanzie e di mobili, senza letti rifatti e senza mogliettine, ma dove tutto quello che serviva era una sete inestinguibile e la sensazione che il tuo vicino, chiunque fosse e qualunque aspetto avesse, se si era portato dietro abbastanza sete, potesse essere per una sera anche tuo amico.

E se la vita di Gelb si dipana tra le Comuni e i bassifondi di città come Berlino, Francoforte e Istanbul, tra anarchici, rivoluzionari e pseudoterroristi, la tensione di Gelb è diretta sempre verso un’improbabile ricerca di senso: Harry rifiuta la società proprio come gli anarchici cui si accompagna ma ne è al contempo affascinato e utilizza la scrittura e il proprio sguardo per comprenderlo e dissezionarlo.

Gironzolai a passi lenti per l’atrio della stazione, feci entrare i rumori dentro di me raccogliendo istantanee. Negri in uniforme ballavano sulla musica della radio a transistor, un vecchio vagabondo attaccava briga con gli sbirri, camioncini elettrici portavano ai treni i sacchi della posta, jugoslavi al chiosco delle birre reclamavano ad alta voce un’ultima bevuta. Un dandy faceva le poste a una marchetta, le puttane si slogavano le caviglie sui tacchi a spillo, i borseggiatori in attesa davanti agli sportelli bancari, eleganti signore dalle espressioni scostanti al braccio di uomini in piedi sotto un divieto di sosta, famiglie indiane  con uno stuolo di bambini e di valigie, e fuori la notte, col suo turbinio di sirene.

“Materia prima” è in realtà una critica a tutti i sistemi sociali, siano questi in essere o utopico-rivoluzionari: ciascuno a modo proprio proponeva e pretendeva l’adesione a regole e stili. Ciascuno uniformava, escludeva, metteva sete. 

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Tra le parole e i romanzi di Diego De Silva

diego-de-silvaNel caso vi fosse sfuggito,  in libreria andate a rovistare tra gli scaffali e cercate “Non avevo capito niente“,  di Diego De Silva, edito per i tipi Einaudi. Sì che poi non è l’ultimo romanzo uscito. No. L’ultima sua opera è un libercolo fino e smilzo, dal titolo accattivante: “Mancarsi“. Vale la pena, ma il buon De Silva – a mio avviso uno psicologo prima che uno scrittore – ha espresso di meglio proprio in “Non avevo capito niente”.

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