la setta dei poeti estinti

“Sul cuor della terra”, Luigi Lo Cascio legge i poeti siciliani

Ogni parola è percorsa dalla voce, le singole lettere si disegnano nella luce soffusa del faro di scena, a formare senso e significato. La frase è il risultato di un attento percorso di ascolto e pronuncia, la lettura cadenza timbro e tono, racconta, percorre, trasmette l’interpretazione. Sono queste le prime impressioni che ci si porta dietro uscendo dal reading di Luigi Lo CascioSul cuor della terra, che ieri al Teatro Vascello di Roma ha portato in scena le parole e le poesie dei poeti siciliani del Novecento.

E che la poesia sia interpretazione, lo ha dimostrato l’incipit del reading: una lettura poetica della prima pagina della “Diceria dell’untore“, la più nota opera di Gesualdo Bufalino. Complice una scrittura cesellata come può esserlo quella dello scrittore siciliano, l’impressione del pubblico è stata che si trattasse di una poesia. Solo alla fine Lo Cascio ha spiegato che si trattava dell’incipit di un romanzo:

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più retratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).

Nonostante una serie di problemi tecnici all’audio dei microfoni – prima un tremendo e continuo gracchiare dell’archetto, poi il jack del “gelato” che si è staccato – Lo Cascio ha percorso la poesia siciliana del Novecento attraverso le parole, i poeti e la storia dell’isola. Dopo un primo excursus sul Pirandello poeta, attraverso la poesia di Salvatore Quasimodo “Al padre” Lo Cascio ha ricordato i giorni drammatici del terremoto di Messina del 1908, con una città devastata, oltre 80mila morti e fucilazioni sommarie in strada di quanti venivano sorpresi a rubare nelle case distrutte. Nei suoi versi – scritti per i 90 anni del padre, un ferroviere ormai in pensione – Quasimodo raccontava infatti la città ma anche le gesta di un uomo con cui non riuscì mai ad instaurare un vero rapporto. E davanti alla distruzione della città, il poeta ricorda suo padre: “la tua pazienza / triste, delicata, ci rubò la paura“. Parole che lette nel silenzio dell’ascolto di un teatro, scavano e raccontano:

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

Lo Cascio ha poi letto brandi di poeti più e meno noti, da Ignazio Buttitta a Lucio Piccolo, passando per una delle poesie più belle di Goliarda Sapienza, “A mia madre”:

Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra

Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua

Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante

Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti

Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara.

Ma il merito di questo reading è stato anche quello di dar voce a poeti siciliani contemporanei, per lo più sconosciuti al grande pubblico, come Angela Bonanno. E la sua poesia sul valore del tempo dedicato alla scrittura è stata una delle più interessanti “conoscenze” della serata:

iù non scrivu a tempu persu
u tempu ppi scriviri
m’u scippu do’ rriloggiu
u tempu ppi scriviri
iù u pavu
non mangiu
non stiru
e a televisioni avi tri ghiorna
ca n’addumu
e cert voti non mi lavu
picchi u tempu ca peddu
ppi lavarimi
mi sciddica d’incoddu cc’u sapuni

u tempu ppi scriviri
m’u ppuntu che spimmuli `nte manu.

io non scrivo a tempo perso
il tempo per scrivere
me lo strappo dall’orologio
il tempo per scrivere
io lo pago
non mangio
non stiro
e la televisione non l’accendo da tre giorni
e certe volte non mi lavo
perché il tempo che perdo
per lavarmi
mi scivola di dosso
col sapone
io il tempo per scrivere
lo appunto con gli spilli nelle mani.

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