la setta dei poeti estinti

L’editoria preziosa di San Marco dei Giustiniani, incontro con Giorgio Devoto

A Genova esiste e “resiste” una piccola casa editrice che pubblica libri – soprattutto di poesia – di altissima qualità, con volumi ricercati e rari: le edizioni San Marco dei Giustianiani. Nate negli anni Settanta su iniziativa di Giorgio e Lilli Devoto, nel 2016 hanno festeggiato i 40 anni di attività.

Per scoprire come nasce e come attraversa i decenni una piccola casa editrice di poesia, siamo andati a parlare con Giorgio Devoto.

Dottor Devoto, come nasce la casa editrice San Marco dei Giustiniani?

La casa editrice San Marco dei Giustiniani nasce negli anni Settanta. Da bambino comperavo i libri della collana “Lo specchio”, editi dalla Mondadori e ricordo che con la macchina da scrivere di mio padre aggiungevo il nome “Giorgio Devoto” sulla copertina, proprio sopra il nome “Mondadori”. Insomma era una vita che avevo voglia di pubblicare libri. E così – durante la mia attività di gallerista, negli anni Settanta mi trovai a produrre cataloghi e pubblicazioni, entrando in contatto con molte persone: tra queste ebbi la possibilità di incontrare Giorgio Caproni prima e Alfonso Gatto poi. Da lì iniziò l’avventura della casa editrice.

Da cosa deriva il nome della casa editrice?

Il nome delle edizioni deriva da Palazzo Giustiniani, dove negli anni Settanta aveva sede la casa editrice. Nella facciata di questo palazzo era stato murato un antico altorilievo di un leone veneziano, dato in omaggio dalla Repubblica genovese dopo una battaglia del 1389, quando i genovesi vinsero proprio sui veneziani. E dal momento che i Giustiniani avevano dispensato anche soldi per quelle imprese, la Repubblica di Genova glielo diede come premio. Pensi poi che in genovese si era anche soliti dire: “Vado da San Marco dei Giustiniani”, che è un piccolo slargo dove ci si dava appuntamento. E visto che la sede della casa editrice era in questo Palazzo, abbiamo scelto questo nome.

Vi siete specializzati in poesia ed edizioni difficilmente reperibili in commercio.

L’idea di fare il piccoloo editore globale sembrava un controsenso – dato che avevo una attività gallerista – e dal momento che la poesia è il massimo modo di espressione mi sembrava ovvio e naturale pubblicare solo e solamente poesia.

Come avvenne il primo incontro con Giorgio Caproni?

Caproni la prima volta che me lo sono visto capitare in Galleria, aveva un appartamentino in una zona periferica ai piedi della Val Trebbia, quartiere Prato e veniva in queste zone perché aveva molti parenti per parte di moglie. Veniva a Genova d’estate. Lo vidi entrare ed ero piuttosto emozionato. Era una persona molto riservata e poco legata a tutto quello che sono i canoni che dovrebbe tenere un autore nell’ambiente letterario: era indipendente e ha pagato questa sua natura un po’ schiva. Io me lo ricordo: era considerato un grande dei minori, un po’ come Sbarbaro, non a caso erano molto amici. Sbarbaro coniò una frase riguardo la poesia di Caproni: “La tua è poesia poesia come durante la guerra si offriva un caffè caffè”. E questa frase gli è rimasta. Caproni era una persona molto riservata ma dimostrò subito di essere un grandissimo poeta. Tra le sue poesie che prediligo: L’ascensore; Il congedo del viaggiatore; Il seme del piangere. Quando compì settant’anni, con l’allora Assessore alla Cultura Santori, facemmo un omaggio a Caproni e partecipò anche Italo Calvino. Ma erano altri tempi, con ben altri intellettuali rispetto al presente. Quando hai frequentato letto, conosciuto, chiacchierato e lavorato con Giudici, Sereni, Bufalino, Penna, Betocchi, Carlo Bo, Caproni, Alfonso Gatto, Calvino…poi guardi al panorama odierno… Ricordo che Sandro Penna capitava che lo chiamassi alle due del pomeriggio e spesso mi insultava perché stava facendo il riposino pomeridiano: credeva fossero le 2 di notte.

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L’ultima notte di Pier Paolo Pasolini

In occasione della serata di letture dedicata a Pier Paolo Pasolini, del 2 novembre a Palazzo Merulana, riportiamo qui il testo introduttivo all’incontro, con una ricostruzione dell’ultima sera di PPP a Roma, prima di essere barbaramente ucciso.

di Emilio Fabio Torsello

«Ecco il seme, il senso di tutto. Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”». Sono circa le sei del pomeriggio del 1 novembre 1975 quando Pier Paolo Pasolini saluta Furio Colombo, giornalista del quotidiano La Stampa. I due si erano visti per una intervista, per parlare di politica, del “Sistema”. Ma il sole ormai è calato, la luce è poca e Furio Colombo non riesce più a prendere appunti. Pasolini forse volutamente non accende la lampada nella sua stanza. Si avvicina a Furio e rivedono insieme i punti salienti delle risposte alle domande. “Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti – afferma Pasolini dopo un attimo di silenzio – Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Avrai le note che aggiungo per domani mattina”.

Una risposta di Pasolini riguardava la natura del potere: “Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?”, chiedeva Furio Colombo. E Pier Paolo, con quella sua voce docile ma decisa, raffinata: “Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono”.

Furio Colombo e Pier Paolo Pasolini si salutano. Pier Paolo nei giorni successivi sarebbe dovuto partire per partecipare al congresso dei Radicali, “quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro)”.

Quella sera ha appuntamento con Ninetto Davoli, i due ormai si frequentano come buoni amici dopo una relazione di nove anni che Pasolini aveva raccontato in una serie di Sonetti rimasti inediti fino agli anni Duemila. Si vedono al ristorante “Pommidoro”, nel quartiere di San Lorenzo – che ancora porta i segni della guerra e dei bombardamenti -, in piazza dei Sanniti. Con il titolare, Aldo Bravi, si conoscono da molto tempo. Addirittura una volta Bravi riuscì a salvare Pasolini da una rissa scoppiata dopo che Pier Paolo aveva difeso alcuni poliziotti. I ragazzetti del collettivo di via dei Volsci erano usciti sulla strada e giù botte. Aldo Bravi a quel punto aveva iniziato a urlare “Fermateve! Fermateve! E’ uno scrittore! E’ un poeta!”. Ma servì a poco.

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Se l’algoritmo censura Catullo

Ieri è accaduto un fatto curioso. Sui nostri social abbiamo pubblicato un carme di Catullo e dopo qualche ora abbiamo ricevuto una notifica da parte di Instagram in cui ci veniva comunicata la rimozione del post perché violava le linee guida della piattaforma e, anzi, si inscriveva nei discorsi inneggianti all’odio. Siamo rimasti interdetti. Sulle prime ci siamo assicurati che quel post non avesse creato altri danni – come la chiusura automatica dell’account. Così non era, per fortuna. 

E’ di qualche giorno fa la notizia secondo cui l’algoritmo di Facebook ha cancellato un’immagine di una statua di Canova perché “nuda”. Immancabile il commento di Vittorio Sgarbi che ha dato della “capra” all’algoritmo. Ebbene, con il nostro post deve essere accaduta un po’ la stessa cosa: l’algoritmo deve aver individuato nell’immagine alcune parole sprezzanti scritte da Catullo – il carme era il n. XVI, per chi volesse andare a rileggerlo – e senza rendersi conto che si trattava di una poesia di uno dei più importanti autori della latinità, ha rimosso il post. 

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“Non devo scordare che il cielo fu in me”, Antonia Pozzi

Un poeta si distingue per la singolarità del proprio sguardo. La poesia, proprio come la fotografia, è una questione di prospettiva; il tentativo artistico di donare al tempo l’immortalità. 

Le immagini scattate da Antonia Pozzi parlano con la stessa voce dei suoi versi; gli album fotografici da lei raccolti sono diari intimi, libri di memorie, nel quale è conservato un frammento dei suoi occhi puri, spalancati a cogliere con intensità ogni momento della vita. È lei la poetessa tragica del nostro Novecento, riscoperta postuma grazie alla pubblicazione dei suoi scritti che nel 1945 ottennero l’apprezzamento di Eugenio Montale e furono in seguito riediti nella rinomata collana «Specchio», l’edizione della Mondadori dedicata ai poeti più illustri.  

La figura di Antonia Pozzi è stata oggetto solo negli ultimi decenni di una clamorosa riabilitazione, che ha condotto ad analizzare più a fondo anche la sua abilità come fotografa. I tratti salienti della sua biografia sono noti e liberano la sua esistenza da ogni mistero: «Io sono tutta una magrezza acerba inguaiata in un colore avorio», così si descriveva giovanissima nella poesia Canto della mia nudità. Milanese, di famiglia altolocata, Antonia sembra soffrire come una prigioniera nell’ambiente colto e raffinato in cui vive. La sua intelligenza precoce rende buia la sua adolescenza. Inizia a scrivere i primi componimenti da studentessa, nel corso degli anni trascorsi al Liceo Classico Manzoni; anni segnati dall’innamoramento per il suo professore di latino, Antonio Maria Cervi. Il legame tra i due fu fortemente avversato dalla famiglia di lei, in particolare dall’ostilità del padre. 

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Senza vergogna non c’è letteratura

Scrivendo Annie Ernaux compie un gesto etico: «L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla» afferma, riversando di proposito sui lettori una scarica di empatia. Svelando segreti, pronunciando l’innominabile, riesce ad abbattere una barriera, inaugurando una nuova forma di autobiografia non più individuale, ma sociologica.
Si tratta di una forma peculiare di letteratura di introspezione, che trae origine da una ferita. Appare evidente in questo senso il legame con Paul Auster, a cui Ernaux è senz’altro debitrice, citato in esergo «Il linguaggio non è la verità. È il nostro modo di esistere nel mondo». Allo stesso modo l’autrice francese concepisce il proprio discorso letterario, nella prospettiva postmoderna della relazione tra linguaggio e realtà.
Non conta più la narrazione di una storia, piuttosto l’analisi di un sentimento, di uno specifico stato d’animo; una certa percezione della vita e del mondo che circonda l’essere umano. È con questa consapevolezza che ci si deve accostare alla scrittura di Annie Ernaux: spesso è impietosa, trafigge come un coltello, tuttavia ha l’innata capacità di purificare lo sguardo e ampliare il pensiero di chi legge. Lorenzo Flabbi, traduttore ed editore dell’opera dell’autrice francese in Italia, ha affermato: «Tradurre Annie Ernaux mi rende una persona migliore», ebbene, in qualità di lettori, non si può far altro che dargli ragione.
La vergogna è un tema ricorrente nelle opere di Annie Ernaux. Se ne trova la più compiuta rappresentazione nel romanzo La Honte, pubblicato da Gallimard nel febbraio 1997 e apparso per la prima volta in Italia nel 1999, edito da Rizzoli, con una traduzione di Orietta Orel. Il libro è recentemente tornato sugli scaffali delle nostre librerie in una nuova traduzione di Lorenzo Flabbi con un titolo più aderente e incisivo: La vergogna.
In una copertina rosso scuro corredata dalle note sagome che accompagnano tutti i libri dell’autrice pubblicati da L’Orma editore, La vergogna sembra aggiungere il tassello mancante all’autobiografia letteraria di Annie Ernaux che i lettori italiani hanno scoperto soltanto in tempi recenti. Vent’anni dopo la prima pubblicazione, il libro conserva tutta la sua freschezza, e soprattutto l’immediatezza della narrazione.
Schietto, crudo, senza fronzoli, estremamente vero fin da quella primissima frase; un incipit diretto, drammatico, sconcertante: «Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio».
È il racconto di un trauma, rivelato come un segreto, che Annie Ernaux afferma di aver confessato solo «a pochi uomini nella sua vita»; e viene ora, attraverso l’artificio della scrittura, reso pubblico.
L’autrice resuscita la bambina che è stata, facendo rivivere i suoi sentimenti, mostrando la progressiva corruzione della sua innocenza. Inizia così una ricerca tra gli archivi e le memorie dell’epoca nel tentativo di far rivivere i luoghi e le atmosfere di quell’anno capitale della sua esistenza, il 1952, che segna per lei uno spartiacque, l’ultima data certa della sua infanzia.
Per la prima volta Ernaux si definisce «etnologa di sé stessa» e rivela, in costante dialogo con il lettore, la ferita alla base della sua scrittura: «La mia convinzione che fosse proprio quell’episodio che mi spingeva a scrivere, che sia proprio esso alla base dei miei libri». La narrazione è infatti intermezzata da continui riferimenti metatestuali, come se la messa per iscritto conferisse un’identità altra al testo, lo riversasse sugli altri rendendo così quanto accaduto meno personale.

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Vi racconto Pierluigi Cappello

di Maria Francesca Di Feo

Conobbi Pierluigi Cappello durante la quarta liceo, quando mi interessavo di poesia da alcuni anni: per il mio diciassettesimo compleanno un amico friulano mi regalò la silloge Mandate a dire all’imperatore, vincitrice del premio Viareggio-Repaci (2010). Mi stupì e commosse. Considerata da molti l’apice del suo percorso letterario, la raccolta mostra il cuore della poesia di Cappello, risonante saggezza disarmata e spoglia. La realtà fermata dai suoi versi rende il lettore parte di una comunità silenziosa, in cui ogni parola si configura come misurato incastro e faticosa conquista. Divorai quel libro più e più volte, fino a tenerlo sempre nello zaino o in borsa, al punto che è tuttora tra i miei più consumati. Trovai il coraggio di scrivere direttamente a Pierluigi qualche mese dopo, nel maggio del 2013. Fu quel mio stesso amico, che collaborava con un giornale locale, a fornirmi l’indirizzo di posta elettronica. Impiegai ore e ore a scrivere quella breve presentazione di me stessa, unita a un sentito e ossequioso ringraziamento per la sua opera: mi ero ormai convinta di scrivere a un gigante, a una delle persone più importanti nei miei neanche diciott’anni. Decisi anche di allegargli qualche mia poesia: già che c’ero, pensai, non avevo nulla da perdere. Pierluigi mi rispose in neanche due giorni, con una mail bellissima che iniziava così:

“Gentile Maria Francesca,

il suo entusiasmo merita una risposta. Sono felice che i miei versi possano parlarle e accompagnarla durante le sue giornate. Sono anche dell’idea che il merito non appartenga del tutto a me ma vada diviso equamente. Diciamo che un po’ del merito è mio e un poco è suo, perché ogni volta che lei legge un mio verso, lo fa rivivere con la sua sensibilità, con le sue esperienze di lettura fin qui accumulate, e con la percezione che lei stessa ha dell’esistenza e del mondo. Diciamo ancora che se i miei versi nascono da me, rinascono ogni volta in chi li legge e mi fa piacere che lei li abbia fatti nascere una volta di più.

Mi sento lieve quando ricevo mail come la sua, mi sento come se fossi riuscito ad assolvere un compito, come se il senso dello scrivere poesia in questa società di ferro mi venisse restituito con calore e in un colpo solo. Grazie.”

Concludeva annunciandomi che avrei potuto scrivergli, nonostante la valanga di posta che riceveva, e che avrebbe letto le mie poesie appena terminato un libro per Rizzoli (“Questa libertà”, edito nel settembre 2013) e dopo aver assolto agli impegni da giurato al Viareggio. Ci scambiammo alcuni altri messaggi per iniziare a conoscerci, fino a che nel periodo natalizio mi invitò a fargli visita a Tricesimo (in provincia di Udine).

PIERLUIGI ABITAVA…

Era una fredda mattina di fine dicembre; il 28, per la precisione. Pierluigi abitava in una piccola casa di legno, un prefabbricato costruito coi fondi dell’Unione Europea per la regione Friuli dopo il terremoto del ’76. Dal centro del paese vi si arrivava dopo un tratto di strada in salita, accanto al quale sorgevano poche altre case e una struttura residenziale per anziani. Era un posto incredibilmente tranquillo, dove si respirava l’aria dei colli in prossimità delle Alpi e della non distante frontiera. Della casa di Pierluigi mi catturò subito la scrivania ricolma di carte, e la libreria che sembrava abbracciare l’intera stanza d’ingresso, la quale fungeva anche da studio e da salotto. Non ricordo le parole precise con cui mi accolse, ma solo il suo sorriso discreto e luminoso, che immediatamente balenò e che ritornava ogni qualvolta la conversazione lo divertisse.

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Invito alle odorose vie del cuore di Rocco Scotellaro

In occasione della serata di letture dedicata a Rocco Scotellaro, pubblichiamo un saggio scritto da Mara Sabia sul poeta di Tricarico.

Rocco Scotellaro. Uno dei miei poeti maestri. Riconosco nella sua una delle maggiori voci poetiche del Novecento italiano: una voce forte, ruvida e gentile che molto mi ha insegnato. Della poesia e della vita.
Conobbi la poesia scotellariana più o meno all’età in cui egli scrisse Uno si distrae al bivio. Non che prima non lo avessi letto, ma lo sentii davvero come si sente un poeta solo a quella età. E notai che quanto abitualmente si tende a far emergere dalla sua produzione letteraria, oltre che dalla sua breve vita, sono i temi quali l’impegno politico, “i contadini del Sud”, la ricerca del rimedio alla fame per la sua terra orfana di Cristo, come nella definizione dell’amico Levi. Eppure, a ben guardare tra i versi scotellariani, si scorgono motivi apparentemente lontani dai citati e, forse, meno noti. Fu così che io scoprii un poeta altro; un altro Rocco Scotellaro, che poco aveva a che fare con la Questione Meridionale, la politica, il martirio del carcere, la perduta schiavitù-libertà contadina, con Levi – e il levismo – che tanto diede, e tanto tolse, a Scotellaro e alla sua fama, così come alla Lucania stessa. Scoprii lo Scotellaro altro e lo studiai. Scoprii e studiai l’uomo, umano troppo umano, spesso impulsivo, giocoso; scoprii l’uomo che amava le donne, ma anche i Classici e i Romantici. Altro che schiavitù contadina. Facile salì, allora, alla mente il confronto tra Rocco Scotellaro e Pablo Neruda: lo stesso intenso fervore impegnato aleggia nei versi di entrambi, le stesse accese note di passione, ma anche lo stesso adorante ritorno alla bellezza, allo sconfinato mistero dell’universo femminile, simbolo del quale diventa il volto bianco di città di una straniera o quello delle donne lucane che “portano la toppa dei capelli neri sulla nuca” . Di Neruda, Giuseppe Bellini ha scritto:

Ha rivendicato le vie del cuore, senza ripudiare la sua funzione di poeta civile, soprattutto in qualità di uomo impegnato col proprio tempo, sinceramente solidale con il prossimo, coinvolto fino alle radici nella sua situazione drammatica .

Sottoscriverei lo stesso pensiero anche a proposito del poeta di Tricarico, benché diverse le origini e le situazioni. Ed è, dunque, brevemente, che per le scotellariane vie del cuore vorrei invitarvi. In una lettura evocativa, scevra da alcuna annotazione critica, tra i ritratti di quelle donne paesane, figlie della miseria nera, fanciulle “dai seni sterpigni” o figlie “della quercia e della macchia” o, ancora, delle signorine di città. Tutte, tutte con la parola di Rocco Scotellaro, diventano creature dagli “odori di tutti i giardini” . Nei giardini germogliano fiori odorosi e le donne vi dimorano come querce possenti ed evocano i profumi selvaggi del bosco, e segreti aromi campestri. Nella splendida poesia Reseda, odore perso e ritrovato Scotellaro scrive:

Avevi tutti gli odori dei giardini
seppelliti nei fossi attorno le case;
tu sei, réseda selvaggia, che mi nutri
l’amore che cerco, che mi fai sperare.

Poi aggiunge:

(…)
io ti guardo e mi bevo il tuo sorriso,
amica del caso, scoperta del cuore
che deve colmare la sua sera.

La donna-reseda è scoperta che colma la sera del cuore del poeta, lo solleva dalle angosce. Pianta profumatissima, la reseda ha proprietà lenitive, insite già nel nome: reseda viene infatti dal verbo latino rĕsēdo,che si traduce con calmare, guarire, alleviare. Non è raro, dunque, come si può dedurre celermente dai versi appena citati, che le donne cantate da Scotellaro siano soventemente assimilate a piante, fiori, vegetali. E non è raro che le donne scotellariane siano figure salvifiche, guaritrici. Esiste in merito una poesia emblematica. E non a caso è il componimento che dà il titolo a tutta una sezione della silloge È fatto giorno:

È rimasto l’odore
della tua carne nel mio letto.
È calda così la malva
Che ci teniamo ad essiccare
Per i dolori dell’inverno.

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Joan Didion, la scrittura come sortilegio

Leggere Joan Didion è come un incontro. La sua voce ti artiglia alla pagina fin dalle prime righe e capisci che non si tratta di un libro come gli altri: non è una storia che ti viene raccontata; ma una persona che ti sta parlando e si rivolge a te, proprio a te, trasformando la lettura in una conversazione a quattr’occhi. In breve tempo capisci che non stai leggendo Joan Didion; stai conoscendo Joan Didion. Ciò che l’ha resa una delle maggiori personalità letterarie viventi è subito chiaro: lei è ciò che scrive; i suoi libri contengono la sua voce, che non è uguale a nessun’altra. Dopo aver letto un suo romanzo sarà sufficiente imbattersi in un incipit, una breve frase, per comprendere che chi ti sta parlando è la Didion. Alla stregua di una registrazione su nastro, la sua scrittura la identifica come un’impronta digitale, contiene la sua essenza, il suo DNA, in una specie di formidabile miracolo letterario.
La voce della Didion è dirompente, sembra fuoriuscire dalla pagina: a tratti grida, piange, trasborda dalle indicazioni di punteggiatura e si snoda in una serie di interrogativi all’apparenza senza risposta.
Nel suo stile di scrittura è contenuta la stessa incisività che traspare da quegli occhi: grandi, espressivi, che in ogni fotografia sembrano forare l’obiettivo e incidersi in quelli dell’osservatore. Appaiono in ogni dove immagini di lei, giovane e invincibile, con gli occhiali da sole neri e lunghi abiti bianchi mentre passeggia per le strade californiane. Una giornalista, una sceneggiatrice, un’intellettuale: vive delle parole che scrive e abita bene il suo personaggio.

L’America ormai la celebra come l’ultima celebrità letteraria, santificandola in vita con onori e tributi, addirittura con una copertina di Céline che la ritrae a ottantuno anni come se fosse la modella del momento. Nel 2012 il Presidente Barack Obama le ha conferito la National Medal of Arts per il suo apporto straordinario alla letteratura. La cerimonia appare fredda e, allo stesso tempo, commuovente. Obama sorride sfolgorante e a un certo punto appare questa donna piccola, esile, tremante, che gli si avvicina a capo chino. Lui le ripone la medaglia al collo con un gesto solenne, le stringe la mano; mentre il pubblico sembra tenere il fiato sospeso. Lei non sorride. Non ringrazia. Sembra piegarsi sotto il peso degli applausi scroscianti; non si sa se per l’imbarazzo o per l’emozione. Oggi Joan Didion è una anziana signora dalla voce esile e il volto solcato da rughe, ma dotata di una carisma straordinario: i suoi occhi forano ancora l’obbiettivo, mentre afferma il suo personale comandamento: «See enough and write it down, I tell myself.»

Ci ha regalato il fascino di una parola eterna, perché viva: è una donna in cui si incarna il dovere morale della scrittura. Per lei le parole hanno rappresentato l’ultimo esile legame con la vita quando tutto sembrava perduto: ce lo rivela il suo capolavoro The Year of Magical Thinking, finalista al Premio Pulitzer nel 2005. Con questo libro la Didion rivela una versione inedita di se stessa: non è più la giornalista in prima linea, la narratrice implacabile delle contraddizioni dell’America moderna, ma semplicemente una donna che mette a nudo il suo dolore, senza difese. L’anno del pensiero magico, pubblicato in Italia dal Saggiatore nel 2006, è un grido aperto contro l’irrazionalità del dolore e inaugura una nuova fase letteraria nella vita dell’autrice. Per la prima volta Joan non usa le parole per combattere il mondo esterno a colpi di accuse e denunce, ma le rivolge impietosamente contro se stessa, scavando nel proprio mondo interiore, nel tentativo di comprendere le ragioni oscure della perdita.

La vita cambia in fretta.
La vita cambia in un istante.
Una sera ti metti a tavola
e la vita che conoscevi è finita.
Il problema dell’autocommiserazione.

L’anno del pensiero magico si apre con queste precise parole, scandite con un ritmo implacabile. All’apparenza illustra una banalità, eppure questo libro riesce a raccontare l’inenarrabile. La sera del 30 dicembre 2003 John Gregory Dunne, scrittore e marito di Joan Didion da oltre quarant’anni, si accascia colpito da un infarto fulminante. I due erano appena usciti dal reparto di terapia intensiva Beth Israel North, dove la loro unica figlia, Quintana, era ricoverata da cinque giorni a causa di una polmonite sfociata in shock settico. In breve tempo Joan deve fare i conti con la morte del marito e con la malattia incurabile della figlia, che si spegnerà a soli trentotto anni, poco tempo dopo la conclusione del romanzo.

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“Le Assaggiatrici” di Rosella Postorino, il nostro incontro con il Campiello 2018

Quando l’ho incontrata, Rosella Postorino mi ha dato un consiglio: «Per scrivere bene non basta leggere molto. Nella scrittura devi mettere tutto: non solo i libri che hai letto, ma anche i film che hai visto, la musica che ascolti, il sapore della torta al cioccolato che hai mangiato a colazione e la brezza del vento d’estate. Tutto quello che ti ha fatto emozionare, piangere, gridare, deve confluire nella scrittura».

Credo che siano stati proprio questi ingredienti, o meglio la loro combinazione, a rendere Le Assaggiatrici un romanzo esplosivo, capace di tenere il lettore incollato alla storia dalla prima all’ultima pagina.

Il 15 settembre 2018 Le Assaggiatrici ha vinto la 56esima edizione del Premio Campiello con 167 voti, un record. Il romanzo era stato pubblicato da Feltrinelli editore nel mese di gennaio, ottenendo subito uno stupefacente e immediato successo di pubblico: a febbraio il libro era infatti già alla sua quarta edizione.

L’idea per la scrittura di questa storia, racconta Rosella Postorino nella postfazione, è nata dalla lettura di un articolo di giornale che narrava la vera vicenda di Margot Wölk, assaggiatrice di Hitler, che all’età di novantasei anni decide infine di raccontare la sua esperienza e renderla pubblica. Margot, pur proclamandosi apertamente non nazista, disse di essersi ritrovata costretta a rischiare la propria vita per tutelare quella del Führer diventando in questo modo complice, suo malgrado, della peggiore dittatura del secolo scorso. Colpita dall’accaduto, Rosella si mette subito a fare della ricerche ma, quando cerca di contattare la Wölk, scopre che nel frattempo la donna è deceduta.

La storia, tuttavia, ha ormai preso forma nella sua mente e chiede di essere raccontata: emerge così il personaggio di finzione di Rosa Sauer, giovane donna che vede la sua esistenza sconvolta dagli avvenimenti della seconda guerra mondiale e cerca di sopravvivere in una nazione avvilita che si trascina inesorabilmente verso un’ormai prevedibile sconfitta. Ex segretaria costretta a fuggire da Berlino dove viveva con il marito ora chiamato alle armi, Rosa si trasferisce in Polonia nella casa dei suoceri, nel villaggio di Gross Partsc. La sua vita trascorre nell’attesa estenuante del ritorno di Gregor. Inoltre ogni mattina Rosa è caricata sul pulmino delle SS insieme ad altre dodici donne, la direzione è Krausendorf, la caserma adiacente alla Tana del lupo, quartier generale di Hitler. Qui, attorno a un tavolo, le donne sono intrappolate come topi in gabbia, con un unico scopo: assaggiare il pasto del Fuhrer. Si rivela subito il grande dilemma etico contenuto nel libro: «Fino a quale limite ci si può spingere pur di sopravvivere?». Assistiamo al dramma di esseri umani affamati, portati allo stremo dalla guerra, cui viene servito un pranzo succulento e invitante che però potrebbe nascondere segretamente il boccone avvelenato. Attorno alla tavolata si mescolano così paura e istinto di sopravvivenza e gli oscuri sensi di colpa di giovani madri che vorrebbero sfamare i propri figli anziché riempirsi lo stomaco con il cibo destinato a un criminale di guerra. Ogni boccone potrebbe essere l’ultimo. Sedute al loro posto, armate unicamente di forchetta e coltello, le donne affrontano la loro personale battaglia con coraggio, eppure con la tacita consapevolezza di non poter, in ogni caso, morire da eroi.

Le assaggiatrici sono dodici e diversissime tra loro: c’è l’enigmatica e scostante Elfriede; la timida e ingenua Leni; la bella Ulla, simile a un’attrice del cinema e poi Beate, Heike.  Non si trovano lì per loro volontà, o perlomeno, non tutte: tra loro ci sono anche Le Invasate, Augustine, Theodora, Sabine e Gertrude, così soprannominate perché al contrario delle altre si dichiarano orgogliose di rischiare la propria vita per la salvezza del dittatore tedesco.

Ogni donna custodisce in privato un segreto: una pena d’amore, una gravidanza illegittima, oppure, nel caso di Elfriede, qualcosa di molto più grave e inconfessabile. Il racconto è intervallato da frequenti flashback che raccontano la vita di Rosa prima della guerra: ricordi indelebili che le offrono conforto nei momenti bui, le carezze amorevoli della madre, i pomeriggi spensierati trascorsi in compagnia di Gregor.

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La bella estate. O l’ultimo bagliore della giovinezza

Un romanzo che dovrebbe partire dalla conclusione, che per l’appunto sembra suggerire un nuovo inizio. La bella estate è uno di quei libri che spingono il lettore ad andare oltre il punto, a non rassegnarsi alla fine della storia e proprio per questa ragione si imprimono nella memoria indelebili insieme al carico di domande, dubbi, interrogativi che hanno suscitato durante la lettura.

Forse è questo il lascito più grande della letteratura: la possibilità dei libri si ispirare riflessioni profonde, in grado di connettere intimamente la vita alle pagine scritte. In fondo è la ragione per cui si legge, nella speranza che un libro continui a parlarci anche una volta dopo averlo terminato.

Con La bella estate non può accadere che questo, persino nel suo romanzo ingiustamente meno celebre Pavese rivela le sue doti indiscutibili di grande narratore creando personaggi vivi, contraddittori e dolorosamente veri.

Con questo libro Pavese si aggiudicò il premio Strega nel 1950, tuttavia l’opera fu a lungo svalutata dalla critica e ancora non è ritenuta un vero e proprio classico.

Scritto nel 1940, il testo integrale comparve solo nove anni dopo nel trittico omonimo composto inoltre da Il diavolo sulle colline e Tra donne sole.

Il racconto che dà il titolo alla silloge, La bella estate, ora pubblicato da Einaudi in edizione singola, è di certo il più significativo. Associato al periodo naturalista dell’autore, La bella estate è la storia di Ginia e del suo ingresso nell’età adulta. L’inizio della sua maturazione come donna. Attraverso una vicenda apparentemente semplice e lineare l’autore tratteggia una riflessione profonda sulla vita e la giovinezza che si apre a diverse interpretazioni. Letto ai giorni nostri questo libro appare estremamente moderno per la storia e le tematiche affrontate. È sorprendente scoprire come Pavese riesca a parlare di una donna malata di sifilide nei reticenti Anni Quaranta. In queste pagine, soprattutto, si può leggere in filigrana un elogio alla libertà, al suo potere travolgente e talvolta spaventoso.

L’incipit non lascia affatto indifferenti, in poche righe Pavese riesce a tratteggiare non solo una stagione, ma l’incredibile senso di euforia e di attesa che accompagna certi istanti dell’esistenza. L’estate irripetibile della giovinezza viene associata a una festa, a una frenesia irrefrenabile, a un’avidità di vita:

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada per diventare come matte, e tutto era così bello specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano che ancora qualcosa succedesse.

Inutile dire che l’estate di Pavese è tutt’altro che bella, sull’intera narrazione aleggia un’atmosfera malinconica che nel finale prenderà il sopravvento. La “bella estate” del titolo infatti non rappresenta solamente una stagione, ma uno stato d’animo: l’estate è nel cuore di Ginia, ma sarà presto destinata a spegnersi come un fuoco fatuo, a trascorrere come ogni stagione della vita. Dell’entusiasmo e della curiosità della protagonista rimarrà alla fine un senso di disperata solitudine.

L’autore ha descritto questo libro con una frase incisiva: «La storia di una verginità che si difende». La bella estate è l’espressione più pura della giovinezza, colta nel suo momento di massimo splendore.

Nella nuova veste grafica di Einaudi in copertina sono ritratte due donne, il particolare è tratto dal quadro di Gerda Roosval- Kallstenius Evening Sun and Sun Reflections. Sono una signorina borghese e una cameriera, si trovano in un interno, dove una è in atto di vestire l’altra. Proprio attorno a due donne ruota il perno centrale della narrazione: Gina e Amelia così sono diverse e tuttavia complementari. L’una giovane e inesperta, l’altra smaliziata e sensuale: dotate entrambe di personalità molto forti pur nelle loro differenze.

Il romanzo stesso potrebbe essere visto come un “processo di vestizione”, non è certamente un caso che Ginia alla fine della storia si scopra nuda e cerchi di coprirsi. Sarà proprio l’incontro tra l’ingenua Ginia e l’enigmatica Amelia, che posa come modista per i pittori, a dare avvio alla storia. Questa donna ambigua e misteriosa, un personaggio carismatico e perfettamente costruito, scandirà il ritmo della narrazione con le sue assenze e gli altrettanto improvvisi ritorni.

Attraverso Amelia, Ginia scopre un modo sconosciuto, la Torino bohémienne e tumultuosa dei caffè e degli artisti. Al di là dei confini limitati dell’universo operaio, dedito a un lavoro alienante, la protagonista viene a contatto con l’esistenza vivace e frizzante di Guido, pittore e soldato, e  del suo compagno di avventure Rodrigues. Affascinata dalle doti artistiche e dai capelli biondi di Guido, Ginia se ne innamora e dopo molte reticenze finirà per concedersi totalmente a lui. Il sentimento di Ginia è tenero e delicato e viene descritto da Pavese con un’intensità unica; è davvero impressionante la capacità dell’autore di calarsi nei panni e nelle sensazioni di una ragazza.  

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